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Chi è Jeff Capaccio, l’avvocato della Silicon Valley che piace agli imprenditori high tech

Jeff Capaccio

E’ appassionato di legge e di tecnologia, come di nuovi talenti a cui fare da mentore. Jeff Capaccio è l’avvocato della Silicon Valley a cui tanti imprenditori high-tech fanno riferimento quando hanno un problema nel settore, come quando vogliono cominciare un’attività in loco o per rapporti e collaborazioni tra Italia e Stati Uniti. Il suo studio legale, Carr & Ferrell LLP, è a Menlo Park, mentre ha co-fondato anche il Silicon Valley Italian Executive Council (Sviec, sviec.org), un gruppo speciale di imprenditori e dirigenti eccellenti, tutti italiani e italo-americani, in aziende high-tech, biotech e di venture capital. “Ci incontriamo regolarmente e organizziamo eventi per fare network, per socializzare e per essere al corrente di tutte le novità nell’ambito tecnologico, legale e politico. Al momento abbiamo oltre 1.500 membri e siamo l’unico gruppo di questo tipo. Agli incontri che abbiamo organizzato hanno partecipato, tra gli altri, la politica Janet Napolitano, Ray Lane, partner in Kleiner Perkins, il superlobbista di Washington D.C. Jonathan Yarowsky, Mark Fabiani, manager esperto in crisi aziendali, Guerrino De Luca, ex amministratore delegato e presidente di Logitech, Federico Faggin, co-inventore di microchip” spiega, mentre lo incontriamo per un caffè a San Francisco, a The Grove, nel quartiere di Fillmore.

Perché ha deciso di fondare Sviec?
La Silicon Valley non è solo più un termine geografico adesso, non si limita a San José o Palo Alto e dintorni, ma a tutta la Bay Area, compresa San Francisco, dove hanno pure sede adesso tante aziende tecnologiche. La Silicon Valley è inoltre un modo di pensare, più che un luogo determinato. Non esisteva un posto dove gli italiani si potessero incontrare, per questo decidemmo di fondare la Sviec nel febbraio 2004. In Silicon Valley allora c’erano già tanti italiani, ma volevamo che si incontrassero per lavoro in maniera non burocratica, più conviviale e amichevole, magari a una cena con un buon vino, proprio come si fa in Italia. Abbiamo integrato gli italo-americani, perché sono da più lungo tempo negli Stati Uniti e possono contribuire a intensificare i contatti e a dare altrettanti buoni consigli. Ci siamo prefissati, però, che nel nostro gruppo ci fossero solo persone di alto livello, di tenere un livello professionale esclusivo da questo punto di vista.

Ha parlato di mentalità diversa in Silicon Valley. In che senso?
Quando incontro ragazzi laureandi, giovani manager, imprenditori italiani consiglio loro di essere molto diretti, veloci, puntuali, precisi e di fare una cosa se si promette di farla. Ma, soprattutto, di arrivare subito al dunque. Quello che rende “idrofoba” la gente in Silicon Valley è una chiacchierata di presentazione o convenevoli lunghi quindici minuti. Se in Italia, o in Europa, o altrove, può essere considerata maleducazione non farla, qui invece non è affatto così.

Ha qualche altro consiglio importante?
In Silicon Valley si lavora molto in squadra. Cosa significa? Che non sai mai con chi puoi trovarti a lavorare domani, con chi stai parlando e con chi parlerai. Una persona la conosci in una situazione oggi e poi, un altro giorno, in un’altra. Meglio, quindi, avere sempre un atteggiamento diplomatico con tutti e non sbilanciarsi mai troppo.

Lei interagisce con italiani e italo-americani in Silicon Valley? Quali sono le principali differenze?
L’italiano è italiano, l’italo-americano ha un’immagine dell’Italia che non esiste più e questo può provocare talvolta contrasti o malintesi, ma per quanto riguarda la tecnologia parlano la stessa lingua. Questo è bello, perché è un grande punto di incontro e forza. Le armi vincenti degli italiani sono la convivialità e il calore, la praticità, la velocità nel gioco di squadra, la creatività e la capacità di improvvisazione, cioè il saper trovare soluzioni a problemi. Ci sono tanti italiani e italo-americani che si sono distinti in Silicon Valley, come i fondatori di Airbnb. Due dei loro tre fondatori, Brian Chesky e Joe Gebbia, sono di origine italiana.

Anche lei è italiano?
Sono americano di nascita, nato a San Francisco. E’ merito di mia madre se parlo perfettamente italiano. Anche lei è nata a San Francisco, ma ci teneva che sapessi la sua lingua. A tre anni lei era andata in Italia, perché la sua famiglia voleva che completasse là i suoi studi. Mio padre era un partigiano durante la seconda guerra mondiale e si conobbero a Casarza Ligure nei pressi di Sestri Levante. In origine, in realtà, mio padre, di origini campane e calabresi, abitava a Genova, ma la sua famiglia lasciò la città durante la seconda guerra mondiale a causa dei bombardamenti e fu sfollata a Casarza Ligure. E’ come se io fossi nato, quindi, da un incontro tra il Nord e il Sud Italia. Entrambi i miei genitori venivano da zone marittime, da loro ho imparato ad amare il mare e la natura. Per questo adoro San Francisco.

Come decise di divenire avvocato?
Fin da ragazzo mi piaceva molto parlare e discutere, poi mi appassionai di questa professione seguendo casi di avvocati in serie tv come le avventure di Perry Mason… Frequentai una scuola di gesuiti, l’Università di Santa Clara, dove conobbi una ragazza che si chiamava Janet Napolitano con cui diventammo amici. Ci conosciamo adesso da oltre 40 anni. Era molto intelligente, si vedeva che avrebbe fatto strada.  Ormai sono oltre 32 anni che svolgo questa professione e gli ultimi 21 anni ho operato in uno studio legale specializzato in high tech. Questo studio è nato, cresciuto e si è sviluppato in Silicon Valley. Io mi occupo principalmente di contenziosi, ma il team copre tutti i settori. Per la parte strategic advocacy guido dei team ad hoc composti di esperti di email marketing, digital marketing, crisis management e del mondo politico, che hanno gestito perfino campagne elettorali. Seguiamo anche il branding; per esempio, siamo in grado di preparare a una gara locale perfino un’azienda europea. In genere, ho sempre amato il mio lavoro, ma prediligo tenere i rapporti con l’Italia e lavorare con questo Paese. Tra i nostri clienti maggiori abbiamo Technogym, l’azienda di Nerio Alessandri, che qui è considerata un po’ come la “Apple italiana”, perché tiene al design e alla qualità del suo prodotto, come all’innovazione.

Come è cambiata la Silicon Valley negli ultimi anni?
Quando ero un ragazzo, negli anni ’70 e negli anni ’80, la Silicon Valley era un settore molto avanzato nel campo della difesa e con la Nasa. Si producevano armi difensive, missili… La tecnologia c’è sempre stata, ma non così numerosa come oggi e non altrettanto innovativa. Ho assistito a tutti i periodi che ha passato la Silicon Valley: dalla crisi finanziaria del 2008, che l’aveva colpita in maniera molto dura, all’evoluzione dei social media e dei motori di ricerca, all’avanzata della biotech, della cleantech, della security.

Una critica?
Con il progresso ci sono sempre persone che vengono rimpiazzate o spiazzate. Questo è qualcosa a cui devono pensare tutti.

Cosa pensa di coloro che credono che in futuro i robot sostituiranno il lavoro umano?
Certi lavori sono molto più efficienti con l’intelligenza artificiale. Bisogna cercare di impiegare le persone in altri modi. I robot devono avere sempre un input umano, devono essere le persone a prendere le decisioni per loro. E’ molto pericoloso, per me, lasciare l’intelligenza artificiale senza un controllo.

Dove vede il futuro?
La cybersecurity sarà un campo che si affinerà sempre più e ci sarà di certo lavoro per tutti in questo settore, come nella biotecnologia, nell’Agtech e nel FoodTech.

C’è spazio ancora per talenti italiani?
Le aziende più note, come Google, Apple, Salesforce, hanno sempre bisogno di nuovi talenti. Non ci sono mai abbastanza talenti rispetto alla costante domanda. Servono sempre ingegneri. E l’ingegnere italiano è molto preparato e creativo, abile nel risolvere i problemi. Non ha nulla da invidiare ad altri di tutto il mondo.

In che direzione pensa invece di evolvere lei?
Voglio investire sulla globalizzazione: nel senso che ormai tutto è globale e una startup che parte in Silicon Valley ha bisogno di protezione in Europa, Asia, in tutto il mondo. Io voglio continuare a investire sull’Italia e a promuovere un’immagine italo-americana d’eccezione nel mondo high tech, che non sia solo di moda e gastronomia, ma tanto altro. Gli italiani possono portare la loro abilità in America senza venire frenati come purtroppo capita ancora spesso in Italia. Qui il genio italiano si trova senza limiti in un contesto di struttura organizzata. Basti pensare ad eccellenze come Luca Maestri, a Apple, o come Diego Piancentini, in passato a Amazon.

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