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Il ritorno dell’Italia. Perché questa volta è vera crescita

Il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. [© Franco Origlia/Getty Images]
Negli ultimi anni le famiglie, le imprese, le banche e anche i governi che si sono succeduti in Italia si sono abituati a convivere con scenari di crisi. L’insorgere del pessimismo è inevitabile quando l’economia va male. Il rischio però è quello di perdere di vista eventuali novità che oggi ci sono e che dovrebbero gradualmente cambiare in positivo l’appetibilità dell’economia italiana per gli investitori esteri.

La novità più importante è che per il 2018 – per la prima volta da molti anni – le aziende impegnate nella preparazione dei loro bilanci preventivi possono finalmente ragionare su numeri decisamente positivi e lontani dagli zero virgola per la crescita dei loro fatturati. Ogni azienda e ogni settore fa storia a sé. Ma se guardiamo alla performance media dell’economia come guida per l’indicazione dei primi dati di scenario i dati sono buoni. Da un lato, il Pil in volume è dato in crescita dell’1,5 per cento, non solo dal governo ma anche dalle principali istituzioni internazionali. Alla crescita del Pil in volume si somma un certo ritorno dell’inflazione che dovrebbe – qui i pareri differiscono un po’ – attestarsi intorno all’1 per cento. Sommando si ottiene che un’azienda che scriva un +2,5 come risultato atteso di crescita per il suo fatturato non assume un punto di partenza esageratamente ottimistico.

Due virgola cinque è un numero molto diverso dai dati di scenario degli autunni precedenti. Per il 2017 il dato complessivo di crescita del Pil e dei prezzi si fermava a un +2 per cento. Per il 2016 al +1,7 per cento. E via giù in calo fino ai dati ampiamente negativi degli anni della crisi dell’euro. Quando un’azienda ha di fronte scenari macroeconomici negativi, sa che l’unico modo di fare fatturato e profitti è di battere i concorrenti in una logica di “mors tua, vita mea”. Quando lo scenario indica un +2,5 per cento medio, il quadro è decisamente più roseo.

A completare il quadro ci sono i dettagli sulla qualità della crescita italiana di questi anni. Nemmeno negli anni di crisi, le aziende italiane hanno mai smesso di esportare e di farsi onore su mercati anche lontani ma soprattutto sui mercati più conosciuti dell’Europa. Più di recente tuttavia, il record di vendite da esportazione ottenuto nel 2016 (ultimo dato annuale disponibile) è stato raggiunto uscendo fuori dai mercati conosciuti della zona euro (il cui apporto è rimasto fondamentale) anche grazie a significative affermazioni nel Nord America, nel Regno Unito e nell’Europa dell’Est. Le imprese che esportano rimangono troppo poche. Ma d’altronde in molti casi piccole imprese non sufficientemente capitalizzate che tentassero l’avventura rischierebbero di andare incontro ad amare sorprese. In questi casi, meglio non avere fretta e meglio lo schema tradizionale che prevede i piccoli in posizione di sub-fornitori delle grandi o medie aziende che hanno le risorse per affrontare l’incertezza della penetrazione dei mercati esteri.

Sottostante alla rinnovata crescita dei fatturati c’è però anche il ritorno del mercato interno. La ripresa del mercato del lavoro (+250 mila nuovi occupati all’anno dal 2014), la persistenza di un’inflazione a livelli bassi e il graduale recupero dei salari – ancora frenati da un insufficiente aumento della produttività –hanno alimentato la crescita del reddito disponibile e la ripresa dei consumi che è avvenuta in linea con la crescita del Pil. Sul fronte degli investimenti aziendali, al boom del settore automotive ha fatto seguito l’efficacia delle politiche di incentivazione (Industria 4.0) nell’incoraggiare gli investimenti in macchinari. Mentre persiste una ripresa troppo flebile dell’immobiliare. E sul futuro pesa l’eccessiva dipendenza del recupero degli investimenti dal rinnovo degli inventivi.

Ma quello che conta è che, in un’Europa che ha ripreso a crescere nonostante le tante incertezze provenienti dalla politica, va finalmente registrato il ritorno dell’Italia.

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