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La “tricky transition” cinese

Il presidente cinese Xi Jinping

Il XIX Congresso del Partito Comunista Cinese ha aggiunto un nuovo tassello alla transizione socio-economica della Repubblica Popolare.
Il presidente Xi Jinping ha riaffermato l’intenzione di trasformare il più compiuto esempio di factory system al mondo in un’economia complessa, avanzata ed ecosostenibile, delineando un percorso chiaro e preciso. Le sue parole sono state immediatamente trascritte nella Costituzione del Paese, privilegio concesso al solo Mao (e in misura minore a Deng Xiao Ping, di cui è stata trascritta la dottrina).
In realtà sono già diversi anni che la Cina sta cercando di sfuggire dalla middle income trap, provando a riorientare la propria economia dall’esportazione al consumo, da un modello di sviluppo labor-intensive ed energy-intensive verso uno a maggiore intensità tecnologica e a maggior valore aggiunto.
Il rallentamento della crescita economica e della produzione industriale è stata la prima avvisaglia di questo mastodontico riposizionamento nella Catena del Valore Globale. E nei prossimi anni la transizione cinese avrà ampie ripercussioni sulla struttura del commercio mondiale e sull’andamento dei mercati finanziari globali.
Nel corso degli ultimi anni, infatti, la razionalizzazione del supply side dell’economia cinese, innescata e sostenuta dal Governo attraverso una serie di provvedimenti normativi ad hoc e un nuovo indirizzo di politica industriale, ha costretto alla chiusura decine di migliaia di imprese, provocando una brusca contrazione dell’indice PMI e violente turbolenze sullo Shanghai Composite Index.
Il raffreddamento dell’economia nazionale, la parziale liberalizzazione del mercato dei capitali e l’aumento della percezione di rischio a livello sistemico hanno rapidamente trasformato la composizione dei flussi di capitale diretti all’estero: la quota destinata all’accantonamento di riserve valutarie si è ridimensionata, mentre gli investimenti, pubblici e privati, sono rapidamente aumentati.
Il portafoglio asset della Repubblica Popolare si è arricchito e diversificato, mentre il Governo ha progressivamente incoraggiato lo spostamento del focus del mercato dei capitali dal settore bancario agli investitori privati e ai risparmiatori, ma, come rileva Brookings, il tessuto produttivo e finanziario nazionale ha sperimentato un’emorragia di capitali, che ha ridotto le riserve valutarie di circa 1000 miliardi di dollari in soli due anni (2015-2016), alimentando il credit crunch.
Gli investimenti cinesi, istituzionali e privati, si sono mossi verso l’estero sia alla ricerca di remunerazioni, sia lungo direttrici strategiche.
Nel 2016 le società cinesi, in particolare le assicurazioni, hanno mostrato un grande dinamismo nei principali mercati immobiliari mondiali, e in particolare in quello USA, secondo uno schema già rodato nel corso del recente passato da Paesi alla ricerca di opportunità di diversificazione per ingenti surplus commerciali e un orizzonte temporale di lungo periodo per i propri investimenti, come le monarchie del Golfo e la Federazione Russa. Anche le acquisizioni di assets legati al mercato delle commodoty e al comparto fashon&luxury hanno sperimentato un notevole incremento.
Le massicce fughe di capitali hanno spinto le autorità cinesi a varare nel mese di agosto una serie di misure volte a scoraggiare e limitare gli investimenti in settori non strategici o ad alto rischio, nel tentativo di far convergere le risorse nazionali nel tessuto produttivo o nei grandi progetti strategici lanciati dal Governo, come la Belt and Road Initiative.
E nei prossimi anni non è difficile prevedere che l’intenzione del Presidente Xi di “aprire sempre più il Paese agli investimenti” si tradurrà in misure a sostegno degli investimenti esteri in Cina, piuttosto che in politiche di ulteriore liberalizzazione dei flussi verso l’estero.
La Repubblica Popolare cercherà di compensare la riduzione dell’afflusso di capitali esteri nel comparto manifatturiero e nell’industria di base riorientando gli investimenti e i consumi nazionali.
A farne le spese saranno i mercati e i settori economici che sono stati interessati dal crescente afflusso di capitali cinesi, come il mercato delle commodity o il settore turistico, e i produttori di beni di consumo globali, come Apple, che hanno già incluso nelle proprie proiezioni di bilancio l’espansione del mercato cinese, ma che iniziano a dover fronteggiare la concorrenza dei primi laboratori del nuovo modello industriale cinese, come Lenovo o Huawei.
Tuttavia, la transizione dell’economia cinese non sarà priva di opportunità.
La normativa che regola gli investimenti esteri, infatti, pur stabilendo un tetto per i flussi verso l’estero e limiti verso alcuni mercati, incoraggia gli investimenti strategici, come ad esempio quelli in assets high tech. Goldman Sachs, inoltre, prevede che il mercato dell’E-Commerce cinese, già al momento il più grande del mondo, raddoppierà entro il 2020, offrendo alle imprese più innovative e competitive un enorme bacino di nuovi clienti.

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