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Il tranquillo venerdì di paura di Carige

La sede di Carige a Genova.

Seppur a fatica vanno a posto le prime tessere del delicato mosaico di Banca Carige. Mattia Malacalza, amministratore delegato di Malacalza Investimenti, ha firmato gli impegni della famiglia a sottoscrivere l’aumento di capitale di Carige per la quota, pari al 17,6%, attualmente detenuta. Lo ha confermato lo stesso imprenditore nel corso di un colloquio telefonico. “Stamattina sono venuto a Milano per confermare ulteriormente anche di persona, e direttamente alle banche del consorzio, l’impegno di Malacalza Investimenti già esplicitato domenica scorsa attraverso i legali che ci rappresentano”. L’impegno scritto del primo azionista della banca va ad aggiungersi a quanto già garantito dagli altri due grandi soci, Gabriele Volpi e Aldo Spinelli, che assieme hanno prenotato l’11,75% del capitale. Inoltre, lo stesso Malacalza ha già annunciato la disponibilità a salire, in coincidenza con l’aumento di capitale, fino al 28% del capitale. “Continuiamo ad attendere fiduciosi la conferma degli impegni da parte delle banche del consorzio che ci hanno preannunciato per la serata”, ha aggiunto il secondo figlio di Vittorio Malacalza.

In sostanza, solo a Borsa chiusa si saprà l’esito di questo imprevisto e drammatico braccio di ferro sull’operazione di aumento (560 milioni) che sembrava già concordata ma che si è arenata giovedì, quando tra le banche del consorzio (Crédit Suisse, Deutsche Bank e Barclays)  e Malacalza è iniziato un curioso rimpallo delle responsabilità: da un parte le banche che hanno chiesto l’impegno dei grandi soci, dall’altra Malacalza che, minacciando l’uscita dalla banca, si è detto fino all’ultimo contrario a far da garante del consorzio di garanzia. Un dissidio all’apparenza insanabile sul quale l’ad Paolo Fiorentino, tramite la moral suasion del Mef, potrebbe trovare la quadratura del cerchio, grazie al coinvolgimento nel consorzio di nuovi istituti e/o grazie alla conversione in azioni dei crediti di Intesa, Unipol e Generali per un totale di 60 milioni. È un’operazione che i creditori hanno contrastato fino all’ultimo perché si sono impegnati con i loro grandi azionisti a non partecipare più ai vari salvataggi imposti “dall’interesse di sistema”, una filosofia che è costata molto cara in termini finanziari, ancor di più in termini di immagine per la finanza del Belpaese nel suo complesso, che resta debole e vulnerabile.

All’origine dell’ultimo dramma, infatti, c’è il rifiuto universale a investire nella nuova Carige, opposto dagli investitori sia in Europa che in una deludente trasferta a Wall Street. Un anno dopo le magre rimediate dal Monte Paschi, nonostante uno sponsor del calibro di JP Morgan, la situazione non è cambiata. E c’è da chiedersi se sia stato saggio respingere altre soluzioni. Il 23 marzo del 2016, infatti, il fondo Usa Apollo aveva proposto un aumento di capitale quasi identico nell’importo a quello in discussione oggi: 550 milioni di euro, la maggior parte (500 milioni) sarebbe stata sottoscritta dallo stesso fondo, i restanti 50 milioni sarebbero stati riservati ai soci. Il piano prevedeva poi la cessione di 3,5 miliardi di sofferenze allo stesso Apollo al valore di 695 milioni, pari al 20% circa del nominale. L’aumento di capitale sarebbe stato destinato a far fronte all’ulteriore svalutazione del bilancio della banca resa necessaria per completare la pulizia. Il piano, pur approvato in via ufficiosa dalla Vigilanza Ue, venne sdegnosamente respinto. Anzi, il consiglio decise di non entrare nemmeno del merito dell’offerta che di fatto avrebbe esautorato un azionariato subentrato solo da pochi mesi con l’obiettivo del rilancio. Ma da allora le cose non sono migliorate, fino alla suspence di un tranquillo venerdì di paura.

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