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Stefano Boeri vuole portarci su Marte

Stefano Boeri

Ospiterà 30mila persone, un milione di piante di cento specie diverse e 40mila alberi che insieme potranno assorbire 10mila tonnellate di anidride carbonica e di agenti inquinanti e produrre circa 900 tonnellate di ossigeno ogni anno. Si chiama Forest City la nuova sfida dell’architetto e urbanista milanese Stefano Boeri e del suo studio di architettura. Si tratta della prima città-foresta del mondo, che sta per essere costruita in Cina, a Liuzhou, nella provincia di Guangxi. Un progetto ambizioso tutto italiano che segue il successo del Bosco Verticale di Milano.

Architetto Boeri, entro il 2020 partiranno i lavori della Liuzhou Forest City, la prima Città Foresta cinese progettata dal suo studio. Com’è nata l’idea di questo progetto ambizioso?

Tre anni fa ci è stato chiesto di immaginare un nuovo modello di città per la regione di Shijiazhuang, una delle aree più inquinate della Cina, e abbiamo proposto, invece che un’immensa periferia di cemento e asfalto, un sistema di piccole città verdi e verticali, delle vere e proprie città-foresta. Qualche mese dopo siamo stati chiamati dalla Municipalità di Liuzhou, a sud di Shanghai, per realizzare una città foresta lungo il fiume Liujiang. Una volta costruita, la Città Foresta di Liuzhou ospiterà oltre 1 milione di alberi e potrà assorbire ogni anno 10mila tonnellate di CO2.

Questo tipo di architettura può essere una soluzione sostenibile per conciliare urbanizzazione, antropizzazione e natura nelle sovraffollate megalopoli globali?

Come esperto chiamato dal Commonwealth a ragionare su come “invertire” il cambiamento climatico in vista di Cop 23, ho proposto di puntare sulla forestazione urbana. Il 70% della CO2 presente nell’atmosfera è prodotta dalle città, mentre i boschi e le foreste del pianeta ne assorbono quasi il 40%. Aumentare radicalmente le superfici boschive nelle città è una delle risposte più efficaci per combattere, dove si origina, il cambiamento climatico.

Stefano Boeri

Oggi c’è maggiore attenzione nei confronti dell’edilizia green, anche se il clima di austerity non è favorevole…

A Eindhoven nei prossimi mesi costruiremo il primo Bosco Verticale in social housing, una torre con centinaia di piante, accessibile ad abitanti con redditi molto bassi. La verità è che i costi di manutenzione del verde sono assolutamente sostenibili se si considera il verde una componente essenziale dell’abitare. Un po’ scherzando, dico spesso che le nostre sono case per alberi che ospitano anche umani.

Qual è secondo lei il ruolo dell’architettura contemporanea?

Credo nelle architetture che non si accontentano di risolvere i problemi dell’oggi, ma che sanno decifrare l’evoluzione nel tempo di quei problemi, proponendo risposte avanzate e illuminate, a volte anche se in discontinuità con il loro contesto urbano. Mi piacciono le architetture che pur rispettando il loro intorno e la storia, sanno prendersi consapevolmente il rischio di una rottura creativa. Anche con un certo gusto del paradosso.

Oggi l’accelerazione e l’innovazione tecnologica hanno favorito un certo nomadismo abitativo, un abitare temporaneo e policentrico. Come sta evolvendo l’abitare?

Ci sono due tendenze in atto. L’abitare nomade è la condizione di vita di milioni di abitanti del sud del pianeta, costretti a migrare verso nord per sopravvivere alle guerre e alle carestie. L’abitare temporaneo è, invece, un fenomeno elitario e positivo, che nell’emisfero nord del pianeta spinge giovani individui e coppie a cercare per un certo periodo della propria vita – per studio, per uno stage o per eventi occasionali – una casa lontana da quella in cui si è nati.

Che cosa pensa dei compensi stellari attribuiti ad alcuni dei suoi colleghi per la consulenza e la realizzazione di opere pubbliche?

Conosco poco il problema (sorride, ndr).

Lei è uno dei pochi architetti italiani che chiamano all’estero. Non teme l’etichetta di archistar?

Ho detto più volte di sentirmi piuttosto un ArchiStreet. Mi piace vivere l’architettura nella sua dimensione di presenza nella vita quotidiana, di ascolto, immaginazione, gioco, anche conflitto. Abbiamo appena finito di costruire ad Amatrice e a Norcia due architetture che stanno dando lavoro e spazi di incontro alle popolazioni colpite dal sisma del 2016. Ma se non avessimo passato giorni a parlare con gli abitanti non avremmo mai saputo concepire le architetture che poi abbiamo realizzato.

Tra i suoi numerosi progetti, ce n’è uno a cui è particolarmente legato?

Forse quello che rappresenta il mio più grande fallimento: il polo marittimo realizzato a La Maddalena per il mancato G8 del 2009. Dopo quasi 9 anni di abbandono, oggi è un paesaggio spettrale. Ovviamente non mi sento responsabile di quel disastro, ma non ho mai smesso di sentirmi partecipe, come architetto, di quel progetto naufragato; di pensarci, di cercare di capire come si potesse recuperare un tale spreco di soldi pubblici e di energie. E oggi che forse siamo vicini alla possibilità di una rinascita, sono ancora più convinto che gli insuccessi – se accettati e studiati – sono utili, ci aiutano a crescere e a evitarli.

Con il suo studio è riuscito a mettere insieme autosufficienza energetica, energie rinnovabili, incremento della biodiversità e riduzione dell’inquinamento dell’aria. Quali sono le sue prossime sfide?

Con l’aiuto di uno scienziato straordinario come Stefano Mancuso, stiamo affrontando la sfida di utilizzare le foglie per pulire l’aria all’interno degli appartamenti. Per quel che riguarda il futuro prossimo, stiamo mettendo appunto una famiglia di Boschi Verticali e altri organismi urbani che uniscano architettura e botanica, adattandosi a differenti climi e biodiversità. Per il futuro lontano, a Shanghai – dove ho uno studio e insegno – stiamo ragionando su come potrà essere la città fra 100 anni, nel 2117, immaginando una metropoli sommersa dalla crescita del livello degli oceani oppure una New Shanghai su Marte, una città costretta a emigrare su un altro pianeta.

Come saranno secondo lei le città del futuro?

Dipende da noi. Siamo davanti a scelte definitive e abbiamo pochissimo tempo. Le diseguaglianze e il cambiamento climatico rischiano di trasformare le città del futuro in grandi aree invivibili e pericolose. Ma sappiamo anche che senza le grandi città, queste sfide non potranno mai essere vinte. Per quel che mi riguarda, sogno un futuro, dove foreste e città si compenetrino e dove le specie viventi coabitino. Una città dove le differenze si confrontano e a volte si scontrano, però sempre nel rispetto di un ecosistema di cui ci si sente tutti partecipi.

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