“It’s there for Just in Case”. È uno dei tanti claim che accompagnano il sito ufficiale della suite di app We-Consent, una delle numerose “consent app” – le controverse applicazioni che vogliono mettere “nero su bianco” il mutuo consenso prima di un incontro sessuale – disponibili da qualche anno per tutti i dispositivi mobili. Non si tratta infatti di una novità dovuta al caso Weinstein e al movimento #MeToo, né tantomeno di una conseguenza del dibattito su cosa sia (o non sia) il consenso. Originariamente, queste app nascono da un contesto tutto americano: l’altissimo numero di violenze sessuali che si registrano ogni anno nei campus dei college statunitensi.
Sul sito di We-Consent si legge:
Il Titolo IX richiede che le scuole facciano i conti con gli incontri sessuali non voluti e indesiderati. Studi dimostrano che l’85% degli incontri non viene denunciato – il più delle volte perché i partecipanti non vogliono chiamare ciò che è successo “violenza”. I programmi esistenti si focalizzano sulla violenza e sulle vittime, il che fa poco per aiutare l’85% silenzioso. La suite di app We-Consent si propone di cambiare tutto ciò.
Poco sotto, a caratteri cubitali: “Il Titolo IX vale per TUTTI, non solo per le vittime”. Il Titolo IX, per la cronaca, è un’aggiunta alla legge federale del 1972, Education Amendments, che si propone di eliminare tutte le distinzioni di genere nel sistema scolastico americano. Si tratta di un decreto legislativo anti-dimiscriminazione molto discusso durante la presidenza Obama, in particolare dopo i vari casi di violenze sessuali occorse ai danni di studentesse di Yale, dell’Amherst College e dell’Università della North Carolina tra il 2011 e il 2013, che avevano dimostrato una certa colpevole indifferenza delle istituzioni universitarie di fronte a questi episodi di molestie.
La suite di app We-Consent è esplicitamente destinata ai campus americani. Il suo sistema si basa sulla raccolta una serie di prove (in particolar modo video) per evitare false accuse nel caso in cui uno dei due partner dichiari di aver subito molestie. Pur affermando di essere di grande utilità anche per le vittime, soprattutto perché fa da deterrente a eventuali attacchi, e pur presentandosi come la ciliegina sulla torta di un più ampio discorso educativo, We-Consent è uno strumento che ha come obiettivo quello di “mitigare i rischi del Titolo IX” per le scuole e le università, diventate timorose dei processi che derivano dalle violazioni della suddetta legge. Se vi state chiedendo quali siano le altre app presenti nella suite, i loro nomi sono What-About-No, I’ve-Been-Violated e Party-Pass. Per quanto tutto ciò possa sembrare surreale.
Legal Fling è l’ultima arrivata in casa “consent app”, e si basa su premesse diverse. È innanzitutto un’app che non vuole proteggere le istituzioni, ma i singoli utenti. Ha una grafica molto accattivante, che non a caso ricorda quella di Tinder. Legal Fling si basa sulla tecnologia blockchain, che permette di istituire un cosiddetto “smart contract”, un contratto tra due persone senza che ci sia interazione umana. Se We-Consent si propone di raccogliere prove di innocenza, Legal Fling è la stesura di un contratto che coinvolge entrambe le parti. Permette di personalizzare il proprio contratto con diverse clausole in base alle pratiche sessuali che si vogliono mettere in atto, con uno o più partner. È interessante vedere ciò che il sito di quest’ultima app ha da dire a proposito del consenso:
#MeToo ha dominato Twitter nel 2017. Il sesso non dovrebbe solo essere divertente. Dovrebbe essere anche sicuro per tutti. Chiedere a qualcuno di firmare un contratto prima del divertimento sembra un po’ sgradevole. Un semplice swipe è facile come contare fino a 3.
La genesi di Legal Fling è chiara: qualcuno ha cavalcato l’onda di #MeToo, trasformando un’occasione di rivendicazione e di autocoscienza in una di guadagno. Aggiungici una strizzatina d’occhio alle dinamiche di Tinder et voilà, eliminiamo alla radice il problema delle molestie, con un senso pratico da tardo capitalismo.
Le domande di fronte alle quali ci mettono app come We-Consent o Legal Fling sono molteplici. La prima, e più scontata, è: ma chi le userebbe? Chi, nel momento di eccitazione che precede l’amplesso, ha voglia di prendere l’iPhone e mettersi a firmare contratti, o fare video per confermare l’assenso del partner? E quale valore legale potrebbero avere queste “prove” nell’aula di un tribunale? “Nel caso di We-Consent”, spiega Andrea Rossetti, professore associato di Filosofia del diritto e di Informatica giuridica all’Università degli Studi Milano-Bicocca, “ci sono troppi fattori di cui bisogna tenere conto per capire se quel video rappresenta la realtà oppure no. Non è sufficiente che un’informazione del genere sia archiviata su un server remoto per far sì che sia sicura. E poi, falsificare un video non è particolarmente complicato”. Legal Fling, invece, utilizzando la tecnologia blockchain, dà qualche garanzia in più. Nonostante ciò, come spiega il professore: “«Contratto» è una parola giuridicamente sbagliata, perché nel contratto c’è sempre uno scambio patrimoniale, che qui non c’è. Inoltre, questa app garantisce ancora meno l’identità di colui che ha espresso il suo consenso. Ad esempio, una persona potrebbe prendere il cellulare del partner mentre questi è in bagno e dare il consenso al posto suo. Infine, bisogna sempre considerare che il consenso non è mai dato una volta per tutte”. “Sempre più spesso si cerca di sostituire con un software un compito che dovrebbe essere svolto dall’educazione”, conclude il professore. “Molto spesso anche le istituzioni, invece di diffondere cultura si limitano a diffondere software: ma questo non basta, perché il software deve essere il risultato di un processo culturale. Non viceversa”.
È questa la rivoluzione del consenso che stavamo aspettando? Di certo, il consenso non è soltanto pronunciare “sì” o “no” prima dell’amplesso. Lo dimostra bene il caso di Aziz Ansari e delle accuse a lui rivolte da un’anonima Grace sulla rivista Babe. Grace, fan del comico che ha flirtato con lui finendo invitata a cena a casa sua, asserisce di aver usato “segnali verbali e non verbali per indicare quanto fosse non a proprio agio e stressata” durante il sesso. Questi segnali a quanto pare non sono stati del tutto recepiti da Ansari. Da qualche settimana molti si interrogano sulle modalità in cui Grace possa aver espresso il suo consenso (o il suo non consenso) durante l’atto. Questa vicenda dimostra benissimo il carattere scivoloso della questione del consenso: nonostante “segnali verbali e non verbali”, una ragazza è tornata a casa piangendo in taxi dopo un appuntamento terribile, si è sfogata anonimamente su una rivista online e un giovane attore promettente rischia di essere ricordato come un pervertito.
Immaginiamo di essere a cena a casa di qualcuno. Stiamo bene insieme, abbiamo chiacchierato tutta la serata ed è arrivato il momento del dolce. Il dolce rappresenta il sesso. Se il nostro ospite ci offre del dolce ma noi non lo gradiamo, l’ospite non ci può obbligare a mangiarlo. Se cominciamo a mangiare il dolce e poi non lo vogliamo più, possiamo lasciarlo da parte. Così se siamo indecisi se mangiare il dolce, perché magari non siamo nella nostra migliore forma fisica, l’ospite non deve insistere per farci mangiare il dolce a tutti i costi. Se siamo svenuti sul tavolo perché durante la cena abbiamo bevuto troppo, l’ospite non può imboccarci a forza. Se stiamo mangiando il dolce e l’ospite ci aggiunge lo zucchero a velo, ma a noi lo zucchero a velo non piace, siamo legittimati a smettere di mangiarlo. Il consenso presenta sfumature che vanno al di là di contratti e prove video: non serve a proteggerci da false accuse a posteriori. È uno scambio tra esseri umani, non un vincolo legale. Le consent app, invece, creano un sistema dove uno prende e l’altro dà. Se ripensassimo come guardiamo al sesso, forse non ci sarebbe bisogno di dover arrivare alle consent app, dove il dialogo è sostituito da uno swipe.
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