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Perché l’auto tedesca è impermeabile agli scandali

La sede di Volkswagen a Wolfsburg

Più la mandi giù, più si tira su. L’auto tedesca non sta soffrendo sui mercati alcuna conseguenza per il danno di immagine legato agli ultimi paradossali ed un po’ grotteschi sviluppi  delle ricerche sul diesel condotte non solo su povere e  incolpevoli scimmie giapponesi ma anche su 25 volontari “per prove di respirazione”. Certo, la notizia contribuisce a consolidare la bocciatura del marchio Volkswagen che già nello scorso aprile era stata decretata negli Usa dalla “Reputation Management Consultants”. Ma il titolo di Wolfsburg (quotazione attorno ai 180 euro, poco sotto un punto percentuale di guadagno) si è rivelato, non solo in questi giorni impermeabile ai siluri in arrivo dai media e dalle organizzazioni ambientali di tutto il mondo. Vediamo perché.

Pochi se non sono accorti, ma la quotazioni di Volkswagen è oggi all’incirca superiore del 10% rispetto al settembre 2015, quando scoppiò lo scandalo del Dieselgate. A confermare che le conseguenze dello scandalo, costato finora 25 miliardi (contro gli 80 delle stime avanzate nel momento della tempesta), si sono rivelate meno pesanti del temuto, basti dire che il colosso di Wolfsburg, tornato in testa nella graduatoria mondiale delle vendite, ha messo in cantiere 20 miliardi di euro di investimenti per accelerare la crescita nell’auto elettrica più altri 14 per sviluppare la sfida nell’auto a guida autonoma, in competizione con Toyota e i big americani, vuoi quelli di Detroit che di Silicon Valley.

Non è azzardato sostenere che la risposta al misfatto del Dieselgate, cioè l’accusa di aver truccato 11 milioni di motori in Europa ed in America che avrebbe probabilmente piegato ogni altra azienda al mondo, è stata eccezionale, se non miracolosa. Sotto la guida di Matthias Mueller, il manager prediletto da Ferdinand Piech, l’azienda è stata rivista in profondità con risultati strabilianti: si sono ridotti i costi (il capex è sceso dal 6,8% del 2015 al 4,8% dell’ultimo anno), i profitti per vettura sono più che raddoppiati dal 2% del 2015, ultimo anno della gestione Winterkorn (travolti dal Dieselgate ma ancor prima dalla guerra che gli aveva portato Piech), al 6%, obiettivo del 2018, nonostante i fortissimi investimenti previsti per accelerare la spinta dell’auto elettrica.

Thomas Mueller, l’uomo che ha guidato la riscossa, ha sfruttato fino in fondo la “carta bianca” che gli era stata concessa nel momento peggiore della crisi. A costo di scontentare due dei più potenti azionisti che governano il gruppo assieme alle famiglie eredi di Ferdinand Porsche: il Land della Sassonia ed il sindacato Ig-Metall. Non sono mancati i momenti difficili in questi anni, com’era inevitabile per recuperare la necessaria flessibilità in un gruppo con 620.000 dipendenti, presente nell’automotive (ma anche sulle due ruote) con 14 marchi. Un’impresa forse impossibile in altri Paesi (Italia in testa) se si tiene conto del peso del sindacato, così presente nella gestione e nella stessa organizzazione delle piattaforme di lavoro, e del governo locale del Land della Sassonia. Ma la squadra di Mueller, profondamente rivista da cima a fondo, ha saputo vincere la sfida del rinnovamento.

La Germania, insomma, non si smentisce. Con competenza, metodo e un gioco di squadra ammirevole il gruppo ha recuperato posizioni: i singoli brand si sono piegati alla regia centrale di Wolfsburg rinunciando all’autonomia; Berndt Osterlooh, il potente presidente del consiglio di sorveglianza per conto del sindacato, l’Ig-Metall, ha dato l’ok a una ristrutturazione che, alla fine del processo, comporterà la riduzione di 30mila lavoratori; in termini di governance, il gruppo ha senz’altro fatto grossi passi in avanti. Lo stesso Dieselgate, ha commentato poche settimane fa lo stesso Mueller, si è rivelato positivo: messa alle strette, l‘organizzazione Volkswagen ha reagito introducendo novità che, forse, non sarebbero mai state adottate.

Ma la rivoluzione, conferma l’ultimo capitolo del Dieselgate, non è finita. Anzi, si è fermata a metà. Come hanno dimostrato le notizie in merito alla scoperta dell’esistenza della “Società di Ricerca europea per l’Ambiente e la Salute nei Trasporti” (Eugt): un centro fondato nel 2007 dai tre grandi dell’industria dell’auto tedesca Volkswagen, Bmw e Daimler (più la Bosch) con l’obiettivo di dimostrare, contro le denunce dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la relativa non nocività delle emissioni dei diesel fino a condurre “quei test sugli animali e perfino sulle persone che non trovano giustificazione alcuna sul piano etico”, come ha dichiarato la stessa Angela Merkel.

Ma la denuncia di frau Angela lascia perplessi. Martedì la Volkswagen è stata costretta a sospendere Thomas Steg, il dirigente che guida l’attività di lobby del gruppo, cui facevano capo i finanziamenti per gli esperimenti condotti fino ad un anno fa sulle scimmie (in New Mexico) e sui volontari (in Germania). Ma Steg non è un manager qualsiasi. Prima di approdare nell’azienda più potente dell’industria più potente di Germania, Steg è stato uno dei più stretti collaboratori della stessa Merkel.

Insomma, lo scandalo che non intaccherà la forza industriale e finanziaria di Volkswagen (o tantomeno di Bmw e Mercedes), conferma lo stretto legame tra industria dell’auto, più che mai regina oltre Reno, con il mondo della politica. Lamentiamoci pure dei limiti della commissione di indagine sulle banche appena chiusa dal Parlamento italiano, ma non dimentichiamo che a Berlino la commissione sullo scandalo del diesel ha subìto un’imbarazzante battuta d’arresto, ricorda la Suddeutsche Zeitung, quando è emerso che una pagina del testo finale riproduceva paro paro una ricerca dell’associazione dell’industria dell’auto tedesca.

Ma l’eccessiva consuetudine con le autorità di controllo rischia di rilevarsi un autogol per i big del settore d’oltre Reno, di gran lunga i leader per qualità ed efficienza. Oltre ad avere conseguenze per ciascuno di noi. La storia delle regole industriali in vigore in Europa offre numerosi esempi del predominio dell’industria tedesca sui partner, come è in parte giustificata dalla forza del capitalismo industriale di Berlino. Ma la forza, quando non è controllata, rischia di tradursi in arbitrio, una sorta di boomerang per un apparato industriale che per primeggiare non ha certo bisogno degli inghippi delle lobby.

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