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La notizia della morte del centro commerciale è fortemente esagerata

Un mall a Norfolk, Virginia.

La prima volta che visitai gli Stati Uniti, una delle esperienze che mi presero più alla sprovvista fu la visita a uno shopping mall. Un piccolo choc. Era il 1990, e in Italia non avevo mai visto nulla di simile. Esistevano dei piccoli centri commerciali, ma avevano ben poco a che vedere con quell’immenso complesso di negozi interamente al chiuso, su più piani. Lì invece, mi spiegarono, era quanto di più normale e diffuso. Ed era vero: il mall era una istituzione essenziale per il modo di vivere degli americani. Solo in quell’anno, ne erano stati inaugurati ben 19.

Di lì a due anni, l’antropologo francese Marc Augé avrebbe coniato il neologismo “non-luogo” per definire (e deprecare) le strutture consumistiche che attraggono moltitudini di individui che le frequentano senza relazionarsi. Da allora, nel quarto di secolo trascorso, gli intellettuali europei e buona parte di quelli americani non hanno fatto che deprecare la natura e l’impatto sociale di realtà come quella del mall. È fisiologico, quindi, che gli stessi intellettuali stiano ora leggendo nella crisi del mall un sintomo della sua imminente fine.

Che una crisi sia in atto, è innegabile. L’ultimo grande mall americano è stato costruito ben dodici anni fa, e durante gli anni della Grande Recessione molti di essi sono caduti in abbandono e sono divenuti dei relitti, inquietanti cattedrali nel deserto della provincia del Midwest. Esiste tutta una documentaristica amatoriale su YouTube che consente di ammirare lo spleen di questi giganti che non ce l’hanno fatta, e c’è anche una pagina Wikipedia che censisce i casi più significativi (ad oggi ne segnala 25, ma presumibilmente ve ne sono molti di più).

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Che questa crisi sia destinata a tradursi rapidamente in una totale estinzione, un po’ come è accaduto ai negozi di dischi o ai videonoleggi, è però una notizia che potrebbe rivelarsi fortemente esagerata, come quella della proverbiale morte di Mark Twain, e dettata da preconcetto ideologico.

Quella dello shopping mall è stata ed è un’istituzione strettamente funzionale a un altro fenomeno – anch’esso prettamente americano – a sua volta inviso alla intellighenzia europea e a buona parte di quella statunitense: quello dei suburb, le enormi aree residenziali extraurbane che non sono né rurali né cittadine: sterminate distese di villette monofamiliari schierate in modo un po’ surreale lungo infiniti vialetti tutti uguali. Quando a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90 si passò a edificare qualcosa di più dei tradizionali “quartieri-dormitorio” i cui abitanti lavoravano in città – e quindi facevano avanti e indietro ogni giorno sulle intasate Interstate – e si prese a stabilire i luoghi di lavoro direttamente là, fuori dalla città, quei mega complessi residenziali smisero di essere satelliti della città, essendo dotati dei propri servizi e dei propri luoghi di intrattenimento. Oggi un americano su due vive in posti così, e considerato che la rimanente metà è ripartita tra le grandi città (oltre il 30%) e le piccole comunità di campagna (meno del 20%), il popolo della suburbia rappresenta la maggioranza relativa della popolazione statunitense, e rasenta quella assoluta.

Il fenomeno dei suburb è a sua volta guardato in cagnesco, da sempre, alla comunità degli urbanisti e dei pianificatori, poiché per sua natura sfugge agli schemi della municipalità, degli strumenti urbanistici, dei piani regolatori, alla logica dei mezzi di trasporto pubblici e a quella dei vincoli paesaggistici. Il suburb è il disordine, il caos. È la comunità senza marciapiedi, senza piazze, con troppi fast food e troppi tabelloni pubblicitari. Paradossalmente, a inventare il mall così come lo conosciamo era stato un membro di questa comunità, per di più europeo: fu infatti l’architetto Victor Gruen, ebreo viennese emigrato a New York nel 1938, ad avere per primo l’idea di realizzare un centro commerciale che anziché avere la consueta struttura “estroversa” fosse totalmente “introverso”, senza finestre o altri affacci verso lo spazio circostante, e anziché essere distribuito su un unico livello, coi negozi che davano su di una strada a cielo aperto, fosse su due piani e completamente chiuso, un ambiente artificiale riscaldato d’inverno e condizionato d’estate. Il primo esperimento, “Southdale”, inaugurato nel 1956 vicino a Minneapolis, presentava già tutte le caratteristiche essenziali delle centinaia che sarebbero sorti nella provincia americana nei decenni a venire. Come si notava in un articolo uscito nel 2004 sul New Yorker:

Oggi praticamente ogni centro commerciale regionale in America è costituito da un complesso completamente chiuso, introverso, su più piani, incentrato su di un paio di negozi più grandi, con al centro un atrio con delle piante illuminate ed il soffitto di vetro. Victor Gruen non progettò un edificio: progettò un archetipo.

Gruen, in realtà, sognava di realizzare una sorta di centro città “in vitro”, proprio per poter meglio pianificare e razionalizzare la creatura; non voleva certo sottrarre alle città la vitalità del loro downtown con le sue piccole botteghe ed i suoi ottocenteschi “grandi magazzini”. Ma le azioni umane hanno spesso esiti imprevisti; e in questo caso, a quelle dell’architetto si sommarono quelle dei deputati e senatori che nel 1954 avevano approvato una riforma fiscale la quale, per incentivare gli investimenti immobiliari, determinava vertiginose detassazioni degli utili di società che avessero investito in immobili commerciali. Costruire un mall significava acquistare un terreno in mezzo al nulla, quindi a prezzo stracciato, edificarlo, e infine poter sottrarre alla tassazione una bella fetta degli utili ricavati dalla vendita o dall’affitto.

Non fu quindi per via del mitologico “liberismo selvaggio”, ma semmai dietro stimolo di un intervento normativo che drogò il mercato, che la costruzione di queste strutture esplose in proporzioni iperboliche. Nel 1970 i mall americani erano circa 300; alla fine del secolo erano circa 1.200. Troppi, molto semplicemente. Nel maggio dell’anno scorso Credit Suisse ha pubblicato una stima stando alla quale nei prossimi cinque anni verranno chiusi tra il 20% e il 25% dei mall d’America.

Il Water Tower Place Chicago Shopping Mall.

Si ha un bel dire che la crisi del mall è dovuta all’avvento di Amazon. Certo, il commercio di molti beni si sta spostando online; ma ad oggi oltre il 90% delle vendite avviene ancora in negozi fisici. È vero che la tendenza è in aumento, ed è vero anche che lo shopping online è particolarmente concentrato nel settore dell’abbigliamento, che tradizionalmente la faceva a padrone nei centri commerciali. Ma in realtà, dati alla mano, sembra che la crescita del commercio su internet e la crisi economica degli scorsi anni abbiano più che altro fatto scoppiare una bolla. L’America è un paese over-malled: si calcola che negli Usa vi siano due metri quadri pro capite di superficie per il commercio al dettaglio, la più alta al mondo (seguita da quella del Canada, un metro quadro e mezzo, e dell’Australia, un metro quadro).

Alla lunga, questo eccesso si è tradotto in un collasso; resta da capire se si tratta di un collasso di tutto il sistema, o se piuttosto a collassare non siano solo quelle singole strutture oggettivamente “di troppo”. Ad esempio, quelle edificate negli anni ’60 e ’70, ormai squallide e obsolete; e quelle costruite per speculazione a breve termine in luoghi “sbagliati”, magari non necessariamente in zone poco popolate, ma popolate in modo non consono. Alcuni analisti, infatti, profetizzano che a sopravvivere saranno i mall con una location adeguata, intendendo in buona sostanza quelli sorti in aree densamente popolate e con alto livello di reddito. In effetti i mall specializzati in merce meno economica e situati in prossimità di comunità più benestanti continuano ad avere successo. In definitiva, il pronostico di Credit Suisse potrebbe anche rivelarsi corretto, ma il fenomeno sotteso dal dato potrebbe anche non essere l’apocalisse tanto profetizzata negli ultimi anni. Si potrebbe trattare di selezione darwiniana, più che di estinzione.

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