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Città del Capo ha finito l’acqua (ed è un problema di tutti)

Terreno arido nei pressi di Durbanville, Città del Capo.

“Attraverso una attenta gestione, ingegnosità ed educazione dei consumatori, la città di Cape Town è riuscita a stabilizzare la domanda d’acqua. L’aumento del consumo annuale di acqua è stato inferiore del 2%, e lo spreco d’acqua ridotto al 20%, per un totale di risparmio di circa 30%”. Con questa nota il C40 – il network che connette più di 90 megalopoli intorno al mondo con l’obiettivo di combattere gli effetti del cambiamento climatico – assegnava a Città del Capo, e in particolare al suo Water Conservation and Demand Management Programme, un premio per “l’implementazione di misure di adattamento al cambiamento climatico”.

Neanche tre anni più tardi, la città sudafricana ha annunciato l’imminente arrivo del Day Zero, il giorno in cui la sua popolazione resterà senz’acqua, aggiudicandosi il non invidiabile primato di prima metropoli al mondo a restare a secco. Da qualche mese la notizia rimbalza sui media internazionali, mentre gli sforzi dell’amministrazione cittadina provano a rimandare la data il più possibile (un anno fa pareva dovesse essere ad aprile, poi l’11 maggio, ora sembra tutto rinviato alla prima settimana di giugno). È bene chiarire cosa significa davvero Day Zero. “Il concetto di Day Zero sembra definitivo”, dice Piotr Wolski allo Smithsonian Mag, “ma non significa che tutte le riserve d’acqua verranno completamente prosciugate. Circa il 13.5% di acqua utilizzabile resterà comunque disponibile per i servizi più essenziali della città, come gli ospedali o i pompieri. Alcuni residenti avranno accesso alla loro acqua personale, attraverso pozzi personali. Ma una volta che il Day Zero arriverà, quelli senza pozzi dovranno prendere l’acqua dai lotti a loro assegnati in una delle 200 stazioni in giro per la città – che è essenzialmente la trama del romanzo distopico del 2015 Gold Fame Citrus“.

Piotr Wolski è un idrologo dell’Università di Cape Town che cerca di dare risposte alla domanda più scontata e pressante che viene fatta dai media locali e stranieri: perché? L’evento sembra essere il risultato di una concatenazione di fattori scatenanti, in cui un ruolo primario è stato giocato dal bassissimo tasso di piovosità degli ultimi anni che, in una zona già di per se molto arida, ha avuto un effetto devastante. Nonostante tutte le buone policy di water management in atto dal 1999, Città del Capo si è dimostrata completamente dipendente dalla pioggia per la raccolta d’acqua, mentre altre città, specialmente quelle più grosse, possono contare sulla desalinizzazione delle piante o sulle falde acquifere sotterranee. Mentre il programma di gestione idrica dava buoni risultati, nessuno sembra essersi preoccupato di sviluppare sistemi alternativi. E a contribuire è stato anche l’enorme boom demografico della zona, con un aumento costante di circa il 3.5% su base annua, che ha portato la popolazione cittadina ai 4 milioni di persone.

Un recente articolo del The Atlantic ha aggiunto un ulteriore elemento alla discussione: quello politico. In particolare, l’analisi ha puntato il dito sui partiti che si sono avvicendati alla guida delle città negli ultimi anni, la Da (Democratic Alliance) su tutti, partito a prevalenza bianca che viene accusato di portare avanti un’agenda “white-oriented” che favorisce le nuove costruzioni e ignora gli avvertimenti di ingegneri e scienziati. Nel 2007, ad esempio, era uscito un report di 160 pagine del Department of Water Affairs, intitolato “Reconcilation Strategy”, che prometteva di lanciare un programma di 25 anni per la gestione idrica. Un programma seguito tuttavia solo in parte dalle amministrazioni locali, e che sarebbe dovuto cominciare anni fa. Insomma, la catastrofe era annunciata: in rete circola un trafiletto di un quotidiano locale datato aprile 1990, in cui si lancia l’allarme: le riserve d’acqua sarebbero terminate entro i 17 anni successivi.

Un tempo città virtuosa, ora Cape Town è a rischio.

La comprensione delle cause scatenanti del fenomeno però è solo una parte della storia. Un’altra, molto più pressante e visibile, è la forte razionalizzazione dell’acqua a cui i cittadini sono sottoposti. Dall’inizio dell’anno l’amministrazione cittadina ha imposto controlli e razionalizzazioni sull’utilizzo dell’acqua di ogni individuo. Il limite di 50 litri di acqua per ogni abitante – meno di un sesto del consumo dell’americano medio – comporta una modifica sostanziale del proprio stile di vita. Il sito online del municipio è tappezzato di riferimenti al water control, agli strumenti per la razionalizzazione quotidiana; ci sono la mappa dei pozzi cittadini e un semplice ma intuitivo water calculator, il modo più veloce per accorgersi della quasi surreale quantità di acqua che ogni individuo può consumare per allontanare il più possibile il Day Zero. In quella data il consumo consentito scenderà a 25 litri cadauno, ovvero l’equivalente di una doccia di due minuti e di uno scarico del gabinetto. Il governo della città invita a utilizzare meno carta igienica per evitare che le tubature possano otturarsi, a limitare le docce a due a settimana, a utilizzare detergenti invece che lavarsi le mani troppo spesso. Il tutto mentre la temperatura esterna, in questo periodo, sale fino ai 22 gradi. Nonostante gli sforzi, ad ogni modo, la città continua a consumare circa 547 milioni di litri al giorno: il limite fissato era di 450.

Se la condizione di Città del Capo sembra inevitabile, non è però unica. Jakarta, Rio de Janeiro, Bangalore, il Cairo, Tokyo e soprattutto Città del Messico potrebbero essere le prossime grandi città a rischio, e il minimo comun denominatore è sempre il cambiamento climatico. Un lungo reportage pubblicato qualche giorno dal New York Times ha evidenziato come l’intero quartiere di Iztapalapa – 2 milioni di abitanti – non possa praticamente più contare sull’acqua corrente, e come il livello di siccità stia mettendo a dura prova il Gran Canale, quello su cui è stata costruita l’intera città. Uno studio pubblicato il 21 febbraio sulla rivista scientifica Evironmental Research Letters, e condotto dall’Università di Newcastle, ha evidenziato come gli effetti del cambiamento climatico sarebbero alle porte: già nel 2050 potremmo avvertirne le prime conseguenze. Mentre la Gran Bretagna e gran parte delle capitali dell’Europa continentale dovranno far i conti con l’innalzamento dei livelli dei fiumi e laghi, gli effetti della siccità saranno più evidenti in Italia e Spagna. Due dei tre scenari prospettati dalla ricerca (che corrispondono a cambiamenti di bassa, media e alta entità) comportano un aumento delle temperature della penisola italiana di almeno 5 gradi centigradi, con Bologna, Cremona, Modena e Reggio Emilia a far parte di quel 30% di città che saranno più colpite dagli aumenti sia delle ondate di calore che della siccità; Siracusa è addirittura nel 5% delle aree urbane più esposte. Parma (insieme a Santiago di Compostela e Ourense in Spagna, e a quattro centri portoghesi, tra cui Braga) è tra i centri che saranno colpiti contemporaneamente sia dalla siccità che dalle esondazioni dei fiumi.

Sostenitori del partito Anc ad Hout Bay durante le elezioni politiche del 2014.

La reticenza a parlare degli effetti generati dal cambiamento climatici deriva, nella stragrande maggioranza dei casi, dalla loro lontananza temporale: è effettivamente difficile – a livello scientifico – misurare il deterioramento delle condizioni climatiche, e oltretutto nel dibattito pubblico un grado in più non sempre fa la differenza. Ci sono tuttavia degli effetti molto più tangibili, anche sul piano sociale. A Cape Town ad esempio la gestione dei pozzi cittadini rischia di diventare un problema, e il razionamento dell’acqua verrà organizzato anche tenendo conto del tasso di criminalità dell’area. “La presenza o meno di gang nei quartieri dove è presente un pozzo è cruciale per determinare la rischiosità di una zona rispetto ad un’altra”, ha detto Richard Bosman, responsabile cittadino per la sicurezza. È ovvio che saranno i quartieri più poveri a risentire maggiormente dei tremendi effetti della mancanza di acqua, laddove nei quartieri più ricchi la popolazione ha già avuto modo di organizzare i propri pozzi (siamo pur sempre in Sudafrica, il Paese dell’apartheid).

È proprio l’acqua, o per meglio dire la sua mancanza, uno dei fattori di disuguaglianza individuati dalle Nazioni Unite nel paper Climate Change and Social Inequality. La ricerca parla inoltre di tre step attraverso cui le diseguaglianze potrebbero materializzarsi: 1) i gruppi sociali più svantaggiati vengono esposti maggiormente agli effetti del cambiamento climatico (è quello che sta succedendo a Cape Town e, in parte, a Città del Messico), 2) la loro suscettibilità ai danni collaterali provocati dal cambiamento climatico aumenta, 3) la capacità di questi gruppi di recuperare il loro tenore di vita diminuisce. Questo processo è strettamente collegato all’acutizzarsi delle tensioni sociali e alla migrazione: fenomeni che, prima di quelli naturali, potrebbero essere i veri – e neanche così inaspettati – campanelli d’allarme per il Primo mondo.

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