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L’altro processo sulla trattativa Stato-mafia

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Nicola Mancino e, sullo sfondo, il pm Nino Di Matteo.

Il processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia è un processo unico nel suo genere, che è proceduto su un duplice binario, giudiziario e politico-mediatico, non parallelo, anzi del tutto divergente. E in questo racchiude tutte le patologie e le disfunzioni del rapporto tra giustizia e società. La cosa più anomala non è – o non è semplicemente – come molti hanno già sottolineato, la presenza di un pubblico ministero nelle convention politiche o in televisione a commentare le sentenze del giorno prima. A questo il Paese è ormai, purtroppo, abituato da tempo: vedere testimoni chiave del più importante processo del secolo esporre patacche in prima serata e pubblici ministeri intervenire nei talk show prima di lanciarsi in politica non è più una novità. Certo, in questo caso è avvenuto in maniera abnorme, ma è un dato fisiologico del nostro circo mediatico-giudiziario.

Ciò che è innovativo è la biforcazione dei due processi, quello penale e quello mediatico, in direzioni e narrazioni completamente diverse. La sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Palermo letta dal giudice Alfredo Montalto ha condannato alcuni importanti boss di Cosa Nostra, gli ex vertici del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e l’ex senatore Marcello Dell’Utri per “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato”. Mentre il super teste dell’accusa Massimo Ciancimino è stato condannato per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennario, e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino è stato assolto dall’accusa di falsa testimonianza. In estrema sintesi, secondo la sentenza di primo grado – che ha sostanzialmente accolto la ricostruzione dell’accusa – gli ufficiali dei carabinieri avrebbero dialogato con i vertici di Cosa Nostra e trasmesso al governo le minacce di ulteriori bombe e stragi se l’offensiva contro la mafia non si fosse fermata, e se lo Stato non avesse accettato una serie di richieste dei boss. Questa azione di pressione e minaccia si sarebbe espressa, sotto varie forme e nelle vesti di diversi autori e interlocutori, dal 1992 al 1994, in un periodo in cui si sono alternati tre diversi governi: Amato, Ciampi e Berlusconi.

Il problema è che gli stessi pm della pubblica accusa, negli anni in cui si sono avvicendate le loro esternazioni mediatiche ed esibizioni televisive, hanno offerto al pubblico una ricostruzione e una lettura politica diversa rispetto a quella che portavano avanti nelle aule giudiziarie. In primo luogo, sin dall’inizio, l’inchiesta non è stata presentata come quella sulla “minaccia” della mafia allo Stato ma come quella sulla “trattativa”, come se il reato fosse il “patto scellerato” tra le istituzioni e Cosa Nostra. In realtà il reato di “trattativa” non esiste: d’altronde ci sono tantissimi esempi di governi che “trattano” con gruppi criminali per tentare di limitarne la violenza e il potere eversivo (si pensi alla trattativa in Colombia tra il governo e le Farc, o a quello che in Italia in tanti avrebbero auspicato con le Brigate Rosse per salvare la vita di Aldo Moro). E alla fine, lo stesso pm Nino Di Matteo ha pubblicamente (e televisivamente) presentato questa sentenza quasi come una prova della collusione del politico Silvio Berlusconi con la mafia: “Finora avevamo una sentenza che metteva in correlazione Cosa Nostra col Berlusconi imprenditore, ora ne abbiamo un’altra che per la prima volta la mette in correlazione con il Berlusconi politico”. Ma, come è facile notare dal dispositivo, la sentenza afferma l’esatto opposto, ovvero che Berlusconi sia stato nel mirino della mafia e delle sue minacce veicolate attraverso Dell’Utri. In pratica il suo governo sarebbe stato vittima e non complice della criminalità organizzata, che comunque, nonostante le minacce, non ha ottenuto nessuno dei benefici di attenuazione del carcere duro che pretendeva.

E a ben guardare, la costruzione teorico-giudiziaria della “trattativa” – che affronta un periodo lungo, complesso e tormentato della storia repubblicana – coinvolge molto di più il centrosinistra italiano del centrodestra. Gli esecutivi degli anni dal 1992 al 1994, a parte pochi mesi del governo Berlusconi, sono il governo guidato da Giuliano Amato e quello capeggiato da Carlo Azeglio Ciampi. Secondo l’impianto accusatorio i protagonisti del cedimento a Cosa Nostra sarebbero stati Nicola Mancino, personalità di rilievo come l’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Conso, che da ministro della Giustizia non ha rinnovato il 41bis a oltre 300 boss, e anche l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il quale avrebbe avuto un “ruolo decisivo” nella sostituzione di ministri scomodi a Cosa Nostra con altri più accomodanti e nella decisione di Conso sul colpo di spugna del 41bis. Ma, siccome in pubblico la narrazione di Conso e Scalfaro come protagonisti della “trattativa” e interlocutori arrendevoli della mafia non regge, fuori dalle aule di tribunale la storia viene trasformata e si incarna in Silvio Berlusconi, che per questo ruolo è il protagonista perfetto.

La vicenda ha tantissime altre anomalie, come molte se ne trovano nei processi italiani, ma questa duplice narrazione che sfocia in due processi distinti e diversi – uno mediatico e uno giudiziario – è la vera specificità della Trattativa Stato-Mafia. Un caso che si spera non diventi un precedente.

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