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Fiorucci, una mostra celebra lo stilista “paladino della moda democratica”

Fiorucci DXing, Disco Look, 1975.

Quando nel 1966 il Time conia per la prima volta l’espressione “Swinging London”, la rivoluzione socio-culturale che dal Regno Unito avrebbe coinvolto il resto dell’Europa era appena cominciata. Tra i suoi protagonisti c’erano anche l’arte e il costume: appena un anno prima, passeggiando tra Carnaby Street e King’s Road, un giovane designer italiano figlio di un commerciante di calzature, Elio Fioruccirimane affascinato dall’energia della capitale britannica, dove i cosiddetti “cool kids” vestono solo Biba e Mary Quant.

Un viaggio a dir poco illuminante per lo stilista, che torna in Italia con il progetto di rivoluzionare la moda e portare a Milano lo stesso spirito libero e trasgressivo della città inglese. Il resto è storia. Nel 1967, il primo negozio a insegna Fiorucci, disegnato da Amalia Del Ponte, sbarca in Galleria Passerella seguito negli anni successivi dallo store di New York sulla 59th Avenue, punto d’incontro di tanti giovani ma soprattutto di artisti come Andy Warhol, Truman Capote e Madonna, che nell’83 tiene il suo primo concerto allo Studio 54 per i quindici anni di attività del marchio. E poi Keith Haring, che con i suoi graffiti firma nel 1983 il restyling dello store milanese, e Oliviero Toscani, che per Fiorucci ha realizzato alcune delle sue campagne pubblicitarie più iconiche.

Fiorucci nel suo ufficio nel 2004.

Oggi, a ripercorrere i successi dello stilista scomparso tre anni fa, chiamato dagli amici il “paladino della moda democratica” (e forse il primo ad aver intuito il fascino dello street style), ci pensa la mostra Epoca Fiorucci, visitabile fino al prossimo 6 gennaio presso la Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, Venezia. Una vera e propria “camera delle meraviglie”, allestita nel salone del palazzo veneziano, tra neon ipercolorati e manifesti delle campagne pubblicitarie scattate da Toscani che celebrano la libertà sessuale conquistata dalle donne. “Fiorucci è stato una sorta di Marcel Duchamp non solo della moda ma, si potrebbe dire, nel modo di disegnare le cose, gli spazi, le relazioni tra l’oggetto e la persona”, spiega Aldo Colonetti, curatore della mostra insieme a Gabriella Belli. “Narrare l’avventura intellettuale di Elio Fiorucci significa ricostruire un’epoca, una rivoluzione del costume, quella del rock, dei figli dei fiori, dell’opposizione al gusto borghese, di cui lui è stato interprete e artefice”.

A decretare il successo del brand nel corso degli anni, però, è stata soprattutto la sua estetica volutamente fuori dagli schemi, che ha fatto di minigonne, jeans attillati e t-shirt con i due cherubini – uno moro e l’altro biondo – i suoi segni distintivi. Ma anche la poliedrica personalità del suo fondatore, appassionato d’arte, viaggi e architettura contemporanea a tal punto da circondarsi di personalità come Ettore Sottsass, Alessandro Mendini e Jean-Michel Basquiat. Ed è sempre durante uno dei suoi viaggi, che lo stilista ha un’intuizione: creare il primo jeans “stretch” (cioè elasticizzato), lavorando il denim con la Lycra. Siamo nel 1982. Un forte successo, coronato negli ’80 dalle aperture a Los Angeles, Tokyo, Sydney, Rio e Hong Kong, che dal 1990 subisce una battuta d’arresto, quando Fiorucci passa nelle mani dei giapponesi di Edwin International e poi Itochu, per essere ceduto nel 2015 agli inglesi Janie e Stephen Schaffer, che nel 2017 (ben 50 anni dopo la sua fondazione) hanno inaugurato un nuovo flagship store a Londra.

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