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Paul Singer è l’uomo che ha in mano le sorti del capitalismo italiano? Lo dirà il futuro di Fca

 

Paul Singer, ceo di Elliott Management

Della sua creatura, Elliott Management Corporation, i grandi osservatori del mercato dicono che “è dappertutto” e che a livello globale sia “il più attivo tra i fondi attivisti”. Parola, per esempio, di Jim Rossman, capo del settore Shareholder Advisory di Lazard. E i numeri sono lì a testimoniarlo: solo tra gennaio e aprile 2018, il fondo guidato dallo statunitense Paul Singer ha lanciato otto campagne, una media di due al mese. Di queste, una è quella che lo ha visto vittorioso nella sfida con i francesi di Vivendi per il controllo di Telecom Italia, grazie anche al sostegno di Cassa Depositi e Prestiti. Mancano ancora all’appello, almeno nella contabilità ufficiale, le prossime mosse di questo newyorchese che a 33 anni – narrano i biografi benevoli – fondò quello che sarebbe diventato il suo impero raccogliendo 1,3 milioni di dollari tra amici e parenti. Seduto sul suo tesoro che oggi ammonta a 35 miliardi di dollari, da qualche tempo Singer ha messo l’Italia nel proprio mirino.

Non è un interesse recentissimo, a dire il vero. Già due anni fa, il fondo Elliott si era reso protagonista di una guerra senza quartiere a Hitachi, allora impegnata nell’Opa finalizzata al delisting di Ansaldo Sts, acquistata un anno prima da Finmeccanica. Una guerra che ancora continua, con l’accusa all’azionista di maggioranza giapponese di non aver valorizzato adeguatamente la società, ma che sta probabilmente volgendo al termine: Elliott, salita dal 9 a oltre il 30 per cento delle azioni, potrebbe presto incassare il premio di tanto sforzo, accettando di vendere la propria quota ai nipponici, ansiosi di fare a meno di un socio tanto ingombrante. La strategia di Singer è quasi sempre la stessa: incursioni in aziende in difficoltà, o con soci litigiosi, per trarne il massimo profitto possibile, rivendendo i pacchetti azionari accumulati o raccogliendo i proventi di una fusione miliardaria.

Potrebbe essere questo l’obiettivo, così come riportato nelle ultime ore da Asia Times (ma l’indiscrezione gira da un po’), di un deal Hyundai-Fca che vedrebbe i coreani prendere possesso di quella che un tempo era la Fabbrica Italiana Automobili Torino. Nelle prossime ore non mancheranno le smentite di rito, i distinguo o magari i mezzi silenzi, utili a lasciar correre il tassametro a Piazza Affari e Wall Street, dove l’ipotesi ha innescato gli acquisti sul titolo Fiat-Chrysler. Elliott Management è azionista di peso della casa automobilistica coreana, dove già da tempo ha investito circa 1 miliardo di dollari e ingaggiato una battaglia con la famiglia Chung che la controlla, tanto da essere riuscito a fine maggio a far ritirare al management della società un ambizioso piano di ristrutturazione del gruppo del valore di 8,8 miliardi di dollari. La pace armata, e il profitto per Singer, potrebbe arrivare proprio con un grande affare: secondo la stampa asiatica, il ceo di Hyundai Motor Group, Chung Mong-koo, starebbe soltanto aspettando il momento più propizio per assestare la zampata che gli consentirebbe di prendere il controllo di Fca. Giusto un calo del titolo capace di rendere un po’ meno onerosa l’operazione, per la quale però tutto sarebbe pronto: l’Opa, stando alle ricostruzioni, potrebbe scattare in un qualsiasi momento tra l’estate in corso e il maggio 2019, momento dell’atteso e ormai più volte annunciato addio di Sergio Marchionne all’ex Lingotto. Dal punto di vista industriale, giurano gli esperti del settore automotive, si tratterebbe di una integrazione perfetta, con zero o pochissime sovrapposizioni, e un vantaggio tecnologico per Fiat-Chrysler in termini di ammodernamento delle piattaforme produttive e soprattutto nell’ottica di implementare quanto promesso dallo stesso Marchionne nei mesi scorsi: l’addio progressivo al diesel e la svolta elettrica. La fusione tra la Casa coreana e quella italoamericana darebbe vita al più grande produttore di automobili al mondo e risolverebbe anche il problema della successione a Marchionne, che vede peraltro sul tappeto più ipotesi: il manager italocanadese, dicono gli insider, propenderebbe per un’investitura a Richard Palmer, attuale direttore finanziario del gruppo, mentre il presidente John Elkann sembrerebbe riporre maggiore fiducia in Michael Manley (capo di Jeep e Ram) o ancor di più in un ufficiale di lungo corso come Alfredo Altavilla. Un nome, il suo, che potenzialmente sarebbe la chiave dell’intera operazione Hyundai.

Gradito alla proprietà, Altavilla – oggi ceo di Fiat-Chrysler per l’area Emea (Europa, Medioriente e Africa) – a maggio è stato infatti inserito proprio da Paul Singer nel consiglio di amministrazione di Telecom Italia. La fiducia della famiglia Agnelli-Elkann, per la quale a più riprese si è sospettata l’intenzione di voler presto o tardi abbandonare il mondo delle quattro ruote per puntare su finanza ed editoria (tra le partecipazioni di peso l’Economist c’è già, e chissà potrebbe pure arrivare il New York Times), per alcuni sarebbe anzi una sorta di viatico per l’operazione coreana. Difficile distinguere, in questa fase, le informazioni autentiche dai depistaggi, ma di sicuro l’eventuale merger Fca-Hyundai non dovrebbe impensierire troppo l’Amministrazione Trump: innanzitutto perché, essendo poche le sovrapposizioni, non sorgerebbe la necessità di chiudere stabilimenti. E soprattutto perché un accordo con una casa automobilistica coreana, alla Casa Bianca, sarebbe vissuto come un male minore, rispetto al rischio di un takeover da parte cinese, tedesca o perfino giapponese. Lo US-Korea Free Trade Agreement, ratificato di recente mentre con il resto del mondo Washington va alla guerra commerciale, è la cartina di tornasole di questa implicita preferenza.

Resta, al di là dell’ipotesi Hyundai, il ruolo di Singer. Non soltanto sullo scacchiere globale (negli ultimi mesi si è mosso un po’ ovunque, anche in India e Israele e in passato è stato capace di mettere in ginocchio Paesi in default, dall’Argentina al Perù, per farsi rimborsare a prezzo pieno i bond che aveva in portafoglio), quanto al suo interesse per l’Italia. Se davvero l’operazione con i coreani andasse in porto, vorrebbe dire che il fondo Elliott è l’attore che decide le sorti del capitalismo nel nostro Paese. Se in pochi mesi riesci a mettere le mani su Telecom, Fiat (?) e Milan (tra pochi giorni scadono i termini per la restituzione del prestito da parte di Yonghong Li e se i soldi non arrivassero Elliott prenderebbe il controllo dei rossoneri per poi individuare un nuovo acquirente), vuol dire che sei pronto a fare shopping in Italia senza guardare in faccia nessuno. E forse, lo scorso 4 maggio all’assemblea di Tim, potrebbe essere andato in scena qualcosa di più di uno braccio di ferro tra Elliott e Vivendi: piuttosto uno scontro tra chi ha fatto incetta di marchi e quote di mercato in Italia nell’ultimo decennio, i francesi, e gli americani. Pronti, a quanto pare, a diventare i prossimi azionisti di riferimento di Italia Spa.

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