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Il tuo prossimo colloquio di lavoro sarà con un chatbot

La chiamiamo intelligenza artificiale, ma forse dovremmo semplicemente parlare di algoritmi, cioè di quei sistemi di calcoli che, depurati dall’interferenza di biochimica e ormoni, sono in grado di prevedere la probabilità che si verifichi una serie di eventi, magari concatenati fra loro. D’altra parte le neuroscienze iniziano a capire quanto anche l’umanità funzioni secondo suoi calcoli naturali, che le permettono di evolvere e di sopravvivere come specie.

L’algoritmo umano (intelligenza con patrimonio di biochimica e ormoni) può essere studiato rifacendosi alle Humanities, cioè a tutte quelle discipline che hanno coltivato strategie di lungo periodo basate sulla cooperazione, e che hanno permesso all’essere umano un adattamento flessibile all’ambiente, in un continuum (la Storia) che ne ha permesso l’evoluzione fino a oggi. L’attuale è un momento di svolta, come sottolinea Paul Vershure, professore di Scienze cognitive e Neurorobotica dell’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona, perché l’uomo nel voler dominare il resto della natura rischia oggi la sua estinzione. La più grossa sfida per l’essere umano è proprio l’umano stesso, che non è ancora un decisore ottimale, ma che con l’aiuto della tecnologia può ambire all’Eudaimonìa, cioè a comprendere con maggiore efficacia la propria condizione per raggiungere la versione evoluta di felicità individuata dalla cultura greca.

L’intelligenza artificiale che dialoga con le risorse umane. Le ricerche di AIDP e Talent Garden

Il tema è quanto mai attuale, in considerazione degli ultimi dibattiti dedicati all’utilizzo di algoritmi e machine learning all’interno del processo di gestione delle risorse umane. Può essere la macchina a filtrare e, in futuro, organizzare le persone all’interno di un’azienda, contribuendo alla loro organizzazione e al loro benessere? Attualmente le  logiche di calcolo aiutano i recruiter a liberarsi del peso di procedure ripetitive e a basso valore aggiunto, e a essere più inclusivi nella selezione, potendo superare sia i pregiudizi sia la mancanza di tempo nel leggere tutti i curriculum (si parla addirittura del 30% di curriculum letti rispetto a quelli inoltrati).

Secondo la ricerca AIDP (Associazione Direttori del Personale) sui suoi 3000 iscritti, oltre il 58% degli intervistati negli ultimi tre anni ha introdotto sistemi digitalizzati e automatizzati nei processi di reclutamento e selezione. Il 63% ha utilizzato questi sistemi per le attività di pre-screening e per facilitare l’attività di selezione, mentre il 45% li ha impiegati per fare un’analisi automatizzata dei curriculum e dei profili presenti nei data base. Privacy permettendo, iniziano a esserci casi di analisi più complessa sui dati provenienti dai candidati: il 27% dichiara di utilizzare tali sistemi per fare un’analisi motivazionale del candidato tramite un check sui social e per verificare la sua web reputation; il 25% del campione li utilizza per fare interviste virtuali ai candidati; il 19% per un’analisi semantica dei curricula dei candidati, l’11% per esaminare i video dei candidati.

Anche TAG Innovation School ha condotto un’articolata ricerca sull’alleanza fra competenze computazionali e umane. Fra le tante evidenze spicca la conferma che le aziende si dicono pronte a innovare, ma ammettono di essere disorientate (54%). Davanti alla potente narrazione in corso sul cambiamento tecnologico ci si sente inadeguati in termini di cultura e competenze. Le competenze di cui le aziende sono carenti non riguardano solo la formazione digitale. Servono le soft skills, quelle che una volta si dicevano legate alle discipline umanistiche ma che oggi si riposizionano tra le cosiddette Humanities.

Secondo il World Economic Forum favorire il reskilling dei collaboratori imposto dalla trasformazione delle professionalità oggi in atto sarà determinante per il successo economico delle aziende. Le compagnie oggi richiedono capacità di cooperare (team working) in maniera flessibile, spirito critico, intelligenza emotiva e competenze nella gestione della complessità.

Anche se il report di TAG condotto da Talent Soft e BearingPoint attribuisce queste competenze alla cultura digitale, è nella formazione umanistica che si sono sempre sviluppate queste abilità. Oggi il pensiero poetico individuato da Edgar Morin come strumento per insegnare a vivere non si attinge più solo da filosofi e poeti, ma anche da antropologi e addirittura teologi. In realtà si tratta di conoscere in maniera approfondita la struttura narrativa che guida le decisioni e l’orientamento umano: una struttura spontanea ‒ l’algoritmo umano, appunto ‒ che è stata studiata da sociologi e filosofi (e anche della scienza) e poi banalizzata in tecniche di comunicazione come lo storytelling.

Oggi si torna a parlare di Design dell’esperienza, un modello più profondo di metaconoscenza e di trasformazione culturale che attinge in maniera trasversale a diverse discipline di studio del comportamento umano. Se la cultura classica analizza il design dell’esperienza del passato, e rischia secondo alcuni (ad esempio Riccardo Manzotti, filosofo, psicologo e ingegnere) di rimanere una speculazione teorica non sufficiente a innescare una nuova spinta evolutiva delle organizzazioni, le Humanities si focalizzano sul presente e allargano ad altre culture, comprese quelle stigmatizzate dalla tradizione classica, gli input sui quali costruire i nuovi modelli culturali.

Le evoluzioni oltre il recruiting e il cambiamento culturale

Non sapremo mai se il 94% dei soci AIDP, quando negano di sentirsi minacciati dai cambiamenti che interverranno con l’intelligenza artificiale – cambiamenti preconizzati come significativi dal 76% dei candidati – stanno rassicurando se stessi e le aspettative che il mondo ha su di loro nell’essere adeguati all’esigenza di cambiamento. Fatto sta che, fra gli intervistati, sembra plausibile per il futuro trovare i bot anche nella formazione (per il 57%), nella valutazione delle performance (41%), nella compensation (40%), e nella valutazione del potenziale dei dipendenti (35%). Il 19% li prevede come strumento per lo sviluppo delle carriere.

Quello della formazione è un campo in piena rivoluzione, in cui vengono meno molte certezze, come quella della lezione frontale di tradizione ottocentesca (nata, come ricorda Vershure, per educare soldati e operai, ma inadatta alla società odierna). La sociologia e l’antropologia, confortate dalle neuroscienze, ma anche la più attuale pedagogia, cedono al gioco il vero potere di apprendimento. L’intelligenza artificiale può quindi intervenire nel percorso di formazione per personalizzare l’esperienza e aiutare a disegnare la trasformazione dei paradigmi in azienda. Inoltre, come emerge dalla ricerca “People 4.0: anticipare il futuro per non rincorrerlo” condotta dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, nell’incontro fra digital transformation e gestione delle risorse umane sono due i temi cardine: lo sviluppo di abilità che consentano ai dipendenti di mettersi sul mercato in maniera efficace (aumentando così anche il loro potere contrattuale), agire sulla capacità delle persone di gestire il cambiamento rimettendo in discussione i confini rigidi della propria identità professionale, in modo da aprirsi a nuove esperienze e ruoli. Tutti bisogni che hanno nelle discipline umanistiche, nella loro versione agita e legata all’esperienza diretta e non agli aspetti speculativi e intellettuali, la soluzione.

I nuovi modelli per far dialogare le Intelligenze

Secondo Alessandro Merletti De Palo, ricercatore che ha sviluppato un modello sulla Scienza della Cooperazione presentato alla conferenza internazionale sull’Intelligenza Collettiva del MIT e fondatore della piattaforma Cooperacy, quello che non funziona è il paradigma unico dell’impiegato che viene osservato e valutato singolarmente, e non nella sua rete di interazioni: a mancare è l’approccio ecosistemico. Cooperacy è un progetto scientifico per individuare nuovi modelli di collaborazione in ambienti complessi. Basandosi sull’equilibrio di 7 dimensioni che intervengono nel regolare i gruppi umani, ha creato un framework utilizzabile su diversi livelli di aggregazione (dal piccolo gruppo al sistema Paese). Per le aziende ha sviluppato alcuni modelli, dal Cohackathon all’Open Ecosystem, perché le aspirazioni naturali alla collaborazione e alla cooperazione trovino terreno fertile e portino la coordinazione delle diversità aziendali a generare sviluppo e innovazione.

L’approccio interdisciplinare è il modello scelto da Impactscool per stimolare lo sviluppo di un nuovo mindset nei confronti del futuro e della tecnologia. “Parlando di algoritmi” – spiega Cristina Pozzi – “non possiamo non immaginare di usarli con spirito critico, perché per loro natura potrebbero darci risposte che non sono valide dal punto di vista del buon senso e, quando sono usati per selezionare personale o definire la cura di una persona, è essenziale che l’approccio umano-macchina sia collaborativo. Per arrivare a questo approccio serve formazione sullo strumento e sulle Humanities.”

Verso l’Eudaimonìa?

Perché l’alleanza fra algoritmi artificiali e algoritmi umani porti a un vantaggio evolutivo sono necessarie alcune considerazioni, recentemente affrontate in un convegno organizzato a Genova dall’Ordine degli Avvocati sul tema Diritto, etica e tecnologia. L’approccio etico va ripensato non in termini antropocentrici ma sistemici, e vale la pena, anche come organizzazioni, avere l’umiltà di riconsiderarsi oggetti di studio. Secondo Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’IIT, l’antropologia è una materia di studio irrinunciabile nel dibattito legato alla tecnologia. In realtà non è la macchina a rappresentare un pericolo, quanto l’euristica progettuale legata all’azione umana. Secondo Paul Vershure, dobbiamo ripensare le basi del calcolo computazionale e prendere spunto da sistemi organizzativi più efficienti del nostro, come quello delle api.

Secondo Yuval Noah Arari, autore di Homo Deus (bestseller edito in italia da Bompiani) in realtà la nostra superiorità rispetto a sistemi organizzativi naturali come quello delle formiche è legata alla capacità umana di cooperare in maniera flessibile, e di intuire e sperimentare adattamenti che non hanno una logica lineare di breve termine, ma utilizzano abilità immaginative anche grazie a quei recettori biochimici che ci legano agli altri.

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