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Le lezioni che il mondo può imparare dal caos Brexit

Boris Johnson, ministro degli Esteri dimissionario.

LONDRA — C’è molto da apprendere, per qualunque euroscettico di buona volontà, dal dramma in corso nelle stanze del potere del Regno Unito – solo ieri sono arrivate le dimissioni del ministro degli Esteri Boris Johnson e di quello con la delega alla Brexit David Davis – dove l’eterna lotta tra pragmatici e sognatori sta avvenendo sullo sfondo di una questione ambigua e impossibile da risolvere senza offendere l’elettorato: quella del rapporto del Paese con l’Unione europea. Kryptonite politica che nessuno vuole toccare, e che rende il fortino di Downing Street poco appetibile anche per il più corsaro degli assalitori.

La premier Theresa May si sta dimostrando una “Lady di gomma”, duttile e capace di resistere agli attacchi più feroci in anni di populismi galoppanti, e il suo unico punto di forza continua a essere quello di saper approfittare con competenza delle manchevolezze altrui. È dalle elezioni del 2017 che la si descrive come una martire sull’orlo dell’abisso, ma intanto è sempre lì, simbolo vivente delle fatiche del potere e di quanto sia gravoso trovarsi a districare certe matasse (mentre qualche poeta fallito ti ronza intorno snocciolando slogan irrealizzabili). Ha perso sette ministri in sette mesi e la solida maggioranza in parlamento dopo una scommessa elettorale andata male, ma fino a quando i suoi avversari non avranno un piano coerente e sostenibile per una Brexit diversa – e magari a questo punto qualcuno ci starà lavorando davvero – non c’è nessuna catastrofe politica che la possa scalfire.

La situazione britannica, per quanto emergenziale, ha qualcosa da insegnare anche oltre i confini di Albione.

Lezione numero uno: i sogni vanno bene, ma ci vuole un po’ di pragmatismo per sostenerli.

Quattro anni fa la Scozia andava alle urne senza sapere che moneta avrebbe usato il giorno dell’indipendenza e al referendum, come per incanto, vinsero gli unionisti. A ripensarci viene da sorridere, ma il sogno di una “hard Brexit” si sta frantumando per lo stesso meccanismo. È cosa nota tra i britannici che chiunque si avvicini troppo alla Ue di solito trasforma lo scetticismo iniziale in un parere più sfumato e articolato. Succede ai politici e ai giornalisti – ci sarà un motivo per cui i tabloid non hanno mai un corrispondente fisso a Bruxelles – ed è quello che sta succedendo un po’ anche al Paese, che sembra voler uscire da questo incubo della Brexit senza rimangiarsi la parola data con il referendum del 23 giugno 2016, ma anche senza autoinfliggersi troppe ferite: anche i sindacati e la base laburista l’hanno capito, e persino il leader Jeremy Corbyn, che esiste grazie al loro sostegno, dà segnali di essersene reso conto.

L’idea di riprendersi il controllo è “romantica”, come ha sottolineato l’ex leader conservatore William Hague, ma “è una soddisfazione, non una politica” e “non ha un utilizzo pratico per il Paese”, che invece ha molto da guadagnare dal piano per una “soft Brexit” che la May ha presentato ai ministri riuniti venerdì scorso ai Chequers, la residenza di campagna dei primi ministri: non è perfetto e contiene molti punti che Bruxelles potrebbe contestare, ma almeno prende atto del fatto che non si può contemplare il suicidio economico e la fine dell’equilibrio geopolitico tra le due Irlande. Con questa proposta la May ha offerto un parziale rimedio agli errori commessi all’inizio del suo mandato, quando per ottenere la fiducia dei Brexiteers oltranzisti aveva fatto dichiarazioni molto nette sull’uscita dal mercato unico, invece di spiegare fin da subito quanto sarebbe stato dannoso per il Paese.

Theresa May oggi a Downing Street.

Lezione numero due: seguire gli estremisti può dare benefici nel breve termine, ma liberarsi dal loro giogo è un’operazione faticosa.

Se la Brexit è kyptonite politica, la lotta all’Unione europea è un volano per qualunque carriera, come dimostra il fatto che Nigel Farage sia scomparso dopo il referendum e che faccia capolino solo quando c’è qualche slogan da urlare. Ne è ben consapevole anche Boris Johnson, che ha deciso di dimettersi per poter continuare a giocarsi la carta del difensore della volontà popolare, pur non avendo finora espresso nessuna idea concreta su come far quadrare i conti nel Regno Unito post-Ue al di là di quel “fuck business” di cui a Londra ancora si ride. La sua performance al ministero degli Esteri è stata semi-catastrofica, tra dimenticabili gaffes e errori veri e propri, come quelli che hanno portato all’inasprimento della sentenza nei confronti della cittadina anglo-iraniana Nazanin Zaghari-Ratcliffe, in carcere in Iran, e la sua lettera di dimissioni, con la frase “il sogno della Brexit sta morendo soffocato da inutili insicurezze”, è stata presa male anche tra i Tories: in realtà non sono insicurezze, ma scrupoli necessari. E infatti già lunedì sera, quando la carriera politica della May sembrava dover finire subito, molti Brexiteers le hanno espresso il loro sostegno.

Lezione numero tre: l’euroscettico perfetto è quello che non raggiunge mai il suo obiettivo ma continua a guadagnare consensi e lustro nella lotta.

Non si tratta di essere pro o contro la Brexit: Theresa May è tutt’altro che europeista e ha votato Remain solo per lealtà nei confronti del suo predecessore David Cameron. Di ragioni per lamentarsi dell’Europa il Regno Unito ne aveva, sebbene non fosse né in Schengen né nella più costrittiva eurozona. Pur essendo il meno “europeo” tra gli Stati membri, ha attirato per anni generazioni di giovani comunitari più o meno formati, accogliendoli con un mercato del lavoro flessibile e con un sistema di benefit generoso. Per anni si è assistito alla creazione di una società nuova e più competitiva, in cui le fasce più deboli della popolazione britannica sono rimaste indietro, si sono sentite per la prima volta vulnerabili anche in un Paese che ha sempre provveduto più o meno a tutto.

Non è incomprensibile che qualcuno abbia protestato e che i politici, non solo a destra, abbiano fatto proprio questo risentimento, nonostante la crescita florida e gli investimenti generosi. Solo che la Brexit è una risposta troppo vaga a un problema posto male e – dietro la questione altisonante della sovranità – rischia di buttare via il bambino con l’acqua sporca. La morale della favola, fondamentale, è scegliere bene le proprie battaglie e delineare con cura il terreno su cui ci si vuole muovere: tra perdere venti chili e tagliarsi una gamba c’è una grande differenza, anche se il risultato in termini di peso magari è lo stesso.

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