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Le Foodora italiane che non possono andarsene all’estero

È di questi giorni la notizia che Foodora, azienda tedesca del gruppo Delivery Hero, lascerà l’Italia perché la strategia del gruppo “è quella di operare in modo economicamente efficiente, con focus su crescita e posizione di leadership in tutti i mercati in cui opera. In Italia questo obiettivo è ora difficile da raggiungere con investimenti ragionevoli”, come ha dichiarato il co-fondatore Emanuel Pallua. La decisione giunge in un momento particolarmente delicato delle trattative tra le aziende del food delivery e il governo per raggiungere un accordo sulla regolamentazione del settore. Solo un mese fa Foodora, assieme a Foodracers, Moovenda e Prestofood, aveva presentato la prima Carta dei Valori del food delivery per sottoscrivere il proprio impegno a garantire le tutele ritenute fondamentali per i rider. In settembre è previsto un terzo incontro col ministro Di Maio – artefice del “decreto dignità” con cui vorrebbe equiparare questi mestieri al lavoro dipendente – per cercare di arrivare a un accordo. L’intesa dovrà necessariamente tenere conto delle tutele pubbliche e private da garantire ai rider, così come delle condizioni minime per permettere alle aziende di continuare la loro attività sul mercato italiano.

Foodora ha già scelto di lasciare l’Italia, ma la situazione è diversa per altre realtà: Foodracers, Moovenda e Prestofood sono imprese italiane, nate dall’iniziativa di ragazzi che hanno voluto investire e rischiare in prima persona nel nostro Paese; per loro, se la regolamentazione contrattuale dovesse diventare economicamente insostenibile, l’alternativa non sarebbe cambiare mercato, ma chiudere. Per questo motivo la neonata associazione di categoria di cui fanno parte questi quattro player si pone come priorità l’applicazione di una contrattualizzazione di collaborazione coordinata e continuativa, che prevede copertura Inail e tutele Inps per i collaboratori, garantendo al contempo la necessaria flessibilità richiesta dalle parti.

Abbiamo incontrato Andrea Carturan, co-fondatore di Foodracers, startup nata 3 anni fa dall’idea di 4 amici trentenni trevigiani che, investendo di tasca propria, hanno subito intuito che la chiave del successo sarebbe stata andare dove nessun altro stava andando: nelle province italiane. In soli due anni dalla costituzione Foodracers ha ottenuto una valutazione di 6 milioni di euro e ad oggi copre 25 città (oltre a 10 nuove aperture previste entro la fine dell’anno) in 7 regioni italiani. I suoi 807 racers hanno consegnato oltre 200mila ordini.

Un fattorino di Foodracers.

Cosa vi aspettate dall’incontro che avrete col ministro Di Maio l’11 settembre?

Ci aspettiamo uno scambio di proposte concrete al fine di arrivare a un accordo che ovviamente non leda la dignità del lavoro dei rider, ma che nel contempo garantisca la sopravvivenza alle aziende del food delivery, soprattutto a quelle non legate alle multinazionali ma che sono nate da imprenditori italiani che hanno investito i propri risparmi, credendo nelle potenzialità del settore. Vista la complessità della situazione che vede in gioco interessi multipli – anche all’interno della stessa categoria dei rider – e che coinvolge un settore economicamente di punta in Italia, ci aspettiamo soprattutto che il governo si dia tempo; tempo per capire la situazione dai vari punti di vista, tempo per studiare proposte concrete e perseguibili, quali ad esempio un contratto ad hoc per tali lavoratori o la possibilità per le aziende di attingere a sgravi fiscali, abbattendo il costo del lavoro per questa tipologia di lavoratori.

 

Pensate che il rapporto di lavoro subordinato che il governo richiede di applicare a tutta la categoria dei rider potrebbe non soddisfare le esigenze di tutti i lavoratori coinvolti?

Il rapporto di lavoro subordinato potrebbe andar bene a una minima parte dei nostri rider. È pensato per persone che intendono effettuare questa attività come lavoro a tempo pieno, con tutti i vincoli che ne conseguono, e quindi siano disposti a turni, orari e legami diretti con le aziende che in futuro li assumeranno. C’è però una gran parte di rider – e nel caso di Foodracers stiamo parlando di almeno il 90% dei lavoratori – che ha scelto questo tipo di attività proprio perché non ha obblighi di orari, giorni, turni: ognuno è libero di inserire o cancellare le proprie disponibilità giorno per giorno, senza alcuna costrizione e senza venir penalizzato per i turni successivi.

I nostri rider sono, infatti, soprattutto lavoratori che lo fanno come seconda attività, per arrotondare e potersi permettere qualcosa in più; oppure sono studenti che in base agli impegni scolastici (o semplicemente al meteo) decidono se quella sera studiare, lavorare, uscire con gli amici o altro. Queste persone apprezzano tale flessibilità e il fatto di essere pagate istantaneamente per il lavoro fatto, senza dover attendere lo stipendio a fine mese. Per tali motivi ritengo sia giusto valutare le diverse facce di questa attività, senza generalizzare le esigenze dei lavoratori. Ci sarà anche chi la vede come l’impiego principale con il quale mantenere una famiglia, ma la stragrande maggioranza dei nostri fattorini non rientra in questa categoria, anzi ha scelto questo lavoro proprio per la flessibilità che lo contraddistingue.

 

Che posizione pensate di tenere, se il governo resterà fermo su quanto vi chiede? 

Penso che il governo abbia ben capito che non è possibile mantenere una linea rigida con queste nuove attività che, essendo appunto nuove, hanno bisogno di essere studiate, capite e regolamentate in modo equo. Non è possibile imporre un contratto di lavoro subordinato tradizionale perché, oltre a non accontentare la maggior parte dei rider, non renderebbe possibile la sopravvivenza delle aziende del settore. La differenza è che se le multinazionali possono scegliere di andarsene, le imprese italiane si vedrebbero costrette a chiudere, facendo cosi perdere a tutti il posto di lavoro e distruggendo l’indotto creato da questo settore. Ma credo – anzi spero – che questo non sia l’intento del governo, perché se queste attività non riuscissero a sostenersi, cadrebbero tutti i motivi di discussione portati avanti finora.

Nonostante i subbugli politici e l’addio di Foodora, il settore continua a macinare numeri interessanti. Moovenda, un’altra realtà italiana del settore, fondata nel 2014 da Simone Ridolfi nell’acceleratore di Luiss Enlabs, ha raccolto ad oggi circa 2,5 milioni di euro di finanziamenti; all’ultimo round chiuso a gennaio ha partecipato anche il giocatore della Lazio e della Nazionale Ciro Immobile, il quale ha deciso di puntare sull’azienda romana. Moovenda, in collaborazione con ricercatori dell’università Tor Vergata, ha messo a punto “Brian”, un algoritmo logistico brevettato per ottimizzare tempi e consegnare senza limiti di distanza. Il servizio opera a Roma, Torino, Napoli e altre città minori.

Prestofood invece opera nelle principali città del Sud Italia, ed è anche dotato di un call center per i clienti meno tecnologici. Guido Consoli, che ha fondato la startup nel 2016, ha raccolto ad oggi circa 700mila euro. Va segnalato anche il polo del food delivery nato da Sgnam-My Menu, di proprietà di Meal srl, che ha inglobato Bacchetteforchette, storica realtà della consegna a domicilio a Milano. L’operazione è stata strategica per penetrare nell’affollato mercato milanese e ha raccolto oltre 500 mila euro per sostenere la sua crescita.

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