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Versace e gli altri. La moda italiana che rischiamo di perdere

Donatella Versace

Sono passate solo poche ore dalla premiazione di Donatella Versace ai Green Carpet Fashion Awards. Poche ore che sono state sufficienti a far intravvedere per il marchio della medusa un momento di svolta. Secondo indiscrezioni riportate oggi dal Corriere della Sera infatti, nel giro di qualche giorno potrebbe essere annunciata la vendita della maison e nella rosa dei possibili compratori ci sarebbe un player statunitense che potrebbe arrivare a valorizzare la casa di moda anche 2 miliardi di dollari. E se il nome più plausibile sembra essere quello di Michael Kors, che a luglio 2017 aveva rilevato il brand di calzature Jimmy Choo per oltre 1 miliardo di dollari, c’è chi scommette invece sul gruppo Tiffany che ha chiuso i sei mesi allo scorso 31 luglio con vendite nette per circa 2 miliardi di dollari.

Dopo la morte nel 1997 del fondatore Gianni Versace, oggi l’azienda è controllata dalla holding Givi (veicolo dei fratelli Santo e Donatella Versace e di Allegra, figlia di Donatella) che ne detiene la maggioranza. Un altro 20% è nelle mani del gruppo finanziario Blackstone, entrato nel capitale nel febbraio del 2014.

Se davvero i rumor dovessero materializzarsi, l’Italia perderebbe uno dei pochi marchi rimasti a giocare in casa. Negli ultimi anni, infatti, a diventare oggetto di operazioni di M&A sono state numerose case di moda italiane che hanno fatto gola a predatori cinesi (vedi Krizia, finita sotto il controllo della cinese Shenzhen Marisfrolg Fashion), francesi e del Middle East. Basti pensare a etichette come Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Dodo e Brioni tutti sotto l’egida di Kering o a Valentino nelle mani del fondo del Qatar Mayhoola for Investments. Sempre in Francia, ma stavolta sotto l’ombrello di LVMH, sono finite maison storiche come Berluti, Rimowa, Loro Piana e Fendi.

Ma l’emorragia del Made Italy potrebbe continuare per l’intervento di gruppi stranieri o di fondi di private equity. Tra i nomi oggetto di recenti speculazioni c’è ad esempio Ferragamo, anche se un portavoce ha smentito le voci di un possibile delisting dalla Borsa di Milano. Un altro nome storico della moda italiana, Trussardi, nei giorni scorsi è stato accostato da indiscrezioni di stampa al fondo QuattroR, veicolo partecipato dalla Cassa Depositi e Prestiti. Ma anche in questo caso si tratta solo dell’ultimo di una serie di rumor che si succedono ormai da anni sulla casa milanese e provenienti anche dall’estero. Moncler, guidato dall’imprenditore Remo Ruffini, già dal 2011 ha invece come socio il gruppo di private equity francese Eurazeo. Per dare un’idea del trend che interessa i brand della moda italiani, su 372 operazioni di fusione e acquisizione realizzati nel settore moda nel mondo tra il 2017 e i primi tre mesi del 2018, 68 hanno riguardato marchi italiani (fonte Kpmg).

Certo, in alcuni casi (seppur limitati) è avvenuto anche un gioco a parti inverse. Come nel caso di Ermenegildo Zegna che ad agosto ha fatto shopping negli Stati Uniti rilevando l’85% di Thom Browne in seguito a un accordo con l’azionista di maggioranza Sandbridge Capital. La domanda resta comunque (inevitabilmente) aperta: perché non esiste una LVMH italiana in grado di svolgere un ruolo di polo di aggregazione del lusso italiano?

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