Style

7 video per rivivere le sfilate di Parigi da bordo passerella

La sfilata Christian Dior alla settimana della moda primavera estate di Parigi. (Pascal Le Segretain/Getty Images)

Con Louis Vuitton si è chiusa ieri sera la settimana delle moda di Parigi e l’intero mese dedicato alle sfilate della P/E 2019.
Circa 130 le collezioni presentate a partire dal 24 settembre, proposte e immagini diverse che hanno suscitato interesse e discussioni fra gli operatori di settore grazie al lavoro di stilisti e marchi provenienti da tutto il mondo, fra i quali molti italiani, in trasferta o alla guida di maison storiche.

Il via è stato dato da Christian Dior e dalla sua direttrice artistica Maria Grazia Chiuri con una collezione dedicata alla danza e alle sue grandi interpreti come Isadora Duncan e Pina Bausch (“Dance is the movement of the universe concentred in an individual”): un ampio spazio spoglio ha accolto 9 danzatori che, su una coreografia di Sharon Eyal, hanno dato vita a una performance fra modelle con lunghi abiti neri a tunica e impeccabili soprabiti minimali. Immancabile un richiamo allo storico “new look” della maison nelle giacche con la vita segnata e nelle gonne da sera in tulle con ricami effetto polvere di stelle.

Ma già poche ore dopo si passava da questa atmosfera eterea al racconto bohémien e ribelle di Gucci, in un contesto teatrale di tutt’altro tipo. Sede scelta per la sfilata che ha chiuso la trilogia di omaggi alla Francia del direttore artistico Alessandro Michele Le Palace, il teatro che dal XVII secolo si è evoluto fino a diventare music-hall, cinema e infine night club di riferimento del jet set degli anni 70. La location è diventata parte della collezione nei look che, mischiando blazer in nappa e abiti a rouches coloratissime, cappelli a falde larghe e boa di piume, pullover a righe (per l’uomo) e pantaloni a stampa serpente, smoking logati e frange di cristallo, hanno rievocato le figure di chi quel luogo lo ha frequentato: Janis Joplin, Mick Jagger, Debbie Harry, Andy Warhol… un catalogo delle icone della cultura pop per una vera e propria performance – Jane Birkin ha cantato dal vivo a metà sfilata – che si è aperta con un omaggio al teatro più radicale degli anni 70, un video  di Leo De Berardinis e Perla Peragallo, e che ha citato Lidia Ravera con le spille di piccoli “porci con le ali” appuntate su giacche e abiti.

Lo spirito “Bohéme” e gli anni 70 sono stati un motivo ricorrente per molte collezioni, anche se in chiave più soft, come negli abiti foulard di Chloé e nei tie&dye e nella maglia metallica stampata a motivi cashmere di Paco Rabane, ora diretto da Julien Dossena.

Il bon ton e l’eleganza senza tempo dello spirito couture sono stati ribaditi da 3 designer italiani: Alessandro Dell’Acqua, che per Rochas ha ideato una collezione di soprabiti a stampe animalier e abiti dai toni delicati, aranci e rosa pallidi, movimentati da piume leggerissime; Giambattista Valli, che ha alternato completi di ispirazione maschile e sartoriale a mini e maxi abiti con volant scenografici; Pier Paolo Piccioli, soprattutto, che alla guida di Valentino ha riscosso l’ennesimo plauso unanime per una collezione fatta di abiti lunghissimi e fluttuanti, con volumi ampi ad esaltare i colori puri o accostati in combinazioni inedite: rosa, arancio, giallo, acqua e i classici rosso, bianco e nero.

Sempre per una clientela elegante e che sembra poter fare a meno dei Millenials sono pensate le collezioni di Dries Van Noten, con tailleur dai dettagli “marina” e accessori piumati, Lemaire, con volumi ampi di ottimo taglio, e Hermès, con tuniche e caban in tela o pelle in colori insoliti come il piombo, il verde tiglio, il turchese o il fuxia. La ricerca sulla decostruzione e ricostruzione delle forme è stata portata avanti da Maison Margiela e Comme des Garçons, ma le silhouettes che più hanno fatto discutere, anche animatamente, gli addetti ai lavori sono state quelle apparentemente più tradizionali della nuova Celine disegnata da Hedi Slimane. Era il debutto più atteso: non c’è infatti un altro designer attualmente altrettanto in grado di catalizzare l’attenzione in virtù di risultati di vendita spesso esaltanti (prima per Dior Homme e poi, soprattutto, per Saint Laurent) ma allo stesso tempo capace di polarizzare le opinioni in modo tanto viscerale.

“Paris la Nuit” il titolo della sfilata andata in scena, letteralmente, a Les Invalides e aperta e chiusa dai tamburi della Garde Républicaine, uno show che ha confermato la visione estetica del designer parigino con le silhouettes allungate e iperaderenti, i miniabiti da Disco Age, i completi estremamente formali – ma assolutamente non tradizionali – il nero quasi assoluto interrotto da qualche lampo di rosso, oro o verde brillante, le modelle e i modelli filiformi e giovanissimi (moltissime le new faces in passerella). Tutto molto sexy – ma mai volgare – “affilato” e un po’ crudele, d’altronde “la gioventù vuol dire avere grazia e libertà di espressione, essere temerari e avere le dita nella presa” , come ha dichiarato Slimane a Le Figaro nella prima intervista da tre anni, e la gioventù – la sua voglia di immaginarsi star, di vivere la notte – diventa perciò fonte di ispirazione. Un deciso cambio di rotta per il marchio, precedentemente guidato da Phoebe Philo, che secondo WWD sta convincendo buyers e nuovi clienti orientali, quelli maggiormente in grado di entrare senza troppo sforzo in taglie così drasticamente “mini”.

Il nuovo corso di Celine rischia però di mettere in ombra la collezione Saint Laurent di Antony Vaccarello, il designer belga chiamato a proseguire il lavoro sul brand iniziato proprio da Slimane. La primavera estate supersexy e in nero totale che si è vista su una passerella d’acqua con la Tour Eiffel sullo sfondo rischia di scontrarsi pesantemente con l’originale”.

Balenciaga è un’altra storica maison che ha cambiato immagine più volte per adeguarsi a una modernità che ha spesso fatto storcere il naso ai puristi. L’ultima collezione disegnata da Demna Gvasalia (artefice anche del marchio Vetements) è una rivisitazione del concetto di forma e volume in senso tanto lineare quanto visivamente efficace. “Presence is the key. Now is the answer”, recitava la voce che accompagnava i look lungo un tunnel allestito dall’artista digitale Jon Rafman, un presente complesso e in movimento come le digitalizzazioni sulle pareti del tunnel, ma dal quale emerge soprattutto un’immagine di power dressing segnato da spalle dritte e in evidenza, colori netti, giacche modellate apparentemente senza tagli e camicie tanto sartoriali da sostituire le giacche.

Durante la diretta streaming della sfilata molti hanno commentato chiedendo nuove sneakers, ma molto semplicemente l’oggetto di massimo recente successo del brand non c’è più. Già, dov’è finito lo streetwear style? Non pervenuto, forse defunto.


Una vaga reminescenza street si può trovare ancora nella più recente rielaborazione degli stivali Birkenstock ad opera di Rick Owens, ma all’interno di una sfilata carica di molte suggestioni: la “donna Owens” (uno dei pochi designer indipendenti da gruppi finanziari) è una “strega” scomoda che sembra accendere la pira al centro del cortile del Trocadéro piuttosto che immolarvisi: vestita di capi spalla che i dettagli appuntiti trasformano in strumenti di autodifesa, abiti lunghi da vestale barbara o mini dress da supereroina, è sicuramente una donna con un grado di consapevolezza piuttosto elevato e una forte volontà di autodeterminazione.

Un altro racconto di femminilità forte è quello di Sarah Burton per Alexander McQueen, marchio ormai completamente ridefinito attorno a un’immagine che abbina eredità vittoriane e tradizioni ancestrali, cultura sartoriale e tecniche antiche (lavoro di donne per le donne) e che ci restituiscono abiti femminili in senso classico con vita segnata ed effetti corsetto, ma anche giacche “corazza” in cuoio nero. Il romanticismo estremo abbinato alla ribellione post punk che erano la cifra del fondatore hanno raggiunto un nuovo equilibrio: magia bianca complementare alla magia “nera” di Rick Owens.

L’ultimo giorno si è aperto con il super show di Chanel: sul set allestito da Karl Lagerfend al Grand Palais che riproduceva una vera spiaggia e un mare con vere onde hanno sfilato i classici borghesi della maison, i cappottini, i tailleur, gli abiti a trapezio e le borse con la catena. Ma tutto con proporzioni rinnovate, dai pantaloni alla caviglia alle maniche larghe appena sotto il gomito, e in una generale sensazione di chic rilassato e molto parigino: Paris Plage in versione elegante.

Dopo Miu Miu, side collection di Prada, che nel pomeriggio ha mostrato una collezione di perfetti abitini e gonne decorati da fiocchi scultorei, immensi e quasi provocatori per una jolie fille in calzettoni e cerchietto, il gran finale è stato come sempre quello di Louis Vuitton.

“Dal cuore di Parigi” (precisamente dalla Cour Carréè del Louvre trasformata da un corridoio di cristallo e neon attorno a specchi d’acqua) “una nuova visione del futuro”, ed il futuro è l’obiettivo e l’ispirazione del direttore artistico Nicholas Ghesquière, fresco di rinnovo di contratto. Capi ibridi che mescolano stili e modellazioni, t-shirt con maniche voluminose e romantiche, caban arricciati, blazer lineari con revères asimmetrici, stampe di rose in colori saturi per micro giubbotti e pantaloni, inserti di colori a contrasto, spalle importanti, segnate da dettagli aerodinamici e borse come piccoli dischi volanti: questo un breve esempio di quanto visto in passerella, difficile da condensare in poche parole. Ghesquière ha dichiarato di essere ossessionato dalle realtà virtuali e dal flusso di informazioni che arrivano dai social media, e tutto ciò lo ha combinato con reminiscenze retro future anni 80, stampe Memphis e tecniche sartoriali haute couture ideando una propria visione del futuro non distopica ma colorata come un manga.

Sicuramente ciò che emerge, in generale, da quanto visto a Parigi, è il ritorno a un abbigliamento che nelle intenzioni sarà più pensato, non necessariamente sempre elegante,  ma con molta attenzione nella scelta e negli accostamenti dei capi, più complessi e lavorati anche quando sembrano semplicissimi.

L’altro fattore evidentissimo è l’identità parigina, la ricerca continua di location mozzafiato stravolte da interventi ai limiti dell’installazione artistica sono uno spot gigantesco tanto per i brand che mettono in scena gli show tanto per la città che li ospita. Pensiamoci.

 

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