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Una startup cinese vuole sfidare Starbucks. E vale già un miliardo

Un’immagine Luckin Coffee (luckincoffee.com)

Tempi duri per il marchio Starbucks. Il pericolo potrebbe arrivare dalla startup cinese Luckin Coffee, poco più di un anno di attività, e l’ambizione di mettere i bastoni tra le ruote alla catena di caffetterie americana. All’apparenza, la formula è la stessa: vendere il caffè. Ma è la forma che cambia, dal momento che l’azienda guidata da Jenny Qian Zhiya punta tutto sulla tecnologia. Innanzitutto perché a differenza dei negozi Starbucks, i punti di ritrovo del marchio asiatico sono piccoli chioschi che prendono ordini solo online: nei suoi punti vendita non si accettano infatti contanti, e i clienti possono pagare solo tramite l’app Luckin, che offre anche bonus fedeltà.

Oggi, il valore stimato di Luckin, che quest’anno ha aperto più di 1.700 punti vendita in Cina, prevedendo di toccare quota 2.000 entro la fine dell’anno, si aggira intorno ai 2,2 miliardi di dollari (lo scorso luglio la startup ha ricevuto un’iniezione di capitale di 200 milioni di dollari da investitori come GIC, che hanno portato Luckin al valore di 1 miliardo). Dal canto suo, per il colosso a stelle e strisce, che ad agosto ha unito le sue forze con l’e-commerce Alibaba  per lanciare il servizio a domicilio e proprio a Shanghai ha aperto il suo negozio più grande, la Cina rappresenta il secondo mercato dopo gli Stati Uniti con circa 3mila store nel Paese, pronti a raddoppiare entro la fine del 2022.

Secondo Bloomberg però, c’è un motivo semplice che porterebbe a pensare che Starbucks possa vincere la guerra: la sua lunga e consolidata reputazione (la catena è stata fondata nel 1971). E questo laddove il neo gruppo cinese disperde molte risorse nella strategia di marketing, specialmente nella pubblicità e in un sistema di consegna rapida secondo cui ogni ordine non recapitato in meno di 30 minuti è gratis. A maggio 2018, Luckin ha pubblicato una lettera indirizzata a Starbucks, dove accusava il player americano di aver posto in essere pratiche anti-concorrenziali come la stipula di clausole di esclusività con alcune società immobiliari.

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