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Internazionalizzare con il franchising: Arabia Saudita un’economia ad alto potenziale

Il franchising rappresenta un’ottima strategia di espansione all’estero del proprio business model. Quali sono le economie più promettenti e, tra queste, quelle in cui il franchising appare adattarsi meglio? Alla prima parte della domanda rispondiamo osservando il tasso di crescita del PIL realizzato nel 2022. Sulla base di questo indicatore evidenziamo come l’Arabia Saudita sia il Paese che cresce maggiormente a livello globale.

Passiamo ora al punto focale ossia, perché oggi un imprenditore del franchising dovrebbe puntare su questo mercato? Lo raccontiamo in quest’articolo, con l’aiuto di Davide D’Andrea Ricchi, esperto del settore e Ceo di Sviluppo Franchising, che da qualche tempo sta tessendo relazioni commerciali con il territorio medio orientale, nonché autore del libro Let’s Franchise – 69 segreti per creare un rete franchising di successo, edito da BFC Books, collana realizzata in collaborazione Forbes Italia.

Cosa dovrebbe colpire, oggi, gli imprenditori del franchising dell’economia saudita?

«L’Arabia Saudita è il più grande Stato dell’Asia occidentale per superficie e rappresenta, altresì, ben il 60% di tutto il mercato del franchising medio orientale: è una penisola felice per il business, che vede fioccare opportunità, in un’economia crescente e con spazi ancora inesplorati. Da analisti siamo abituati a valutare i numeri e la programmazione. E nel caso dell’economia saudita ci sono entrambi. Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale l’economia saudita ha avuto una crescita dell’8,5%, con entrate complessive di 328 miliardi di dollari. Se questi dati sono in parte dovuti alla vendita del petrolio, c’è tuttavia una crescita significativa (+5,2%) di tutti gli altri settori merceologici. E non è un caso: con il programma Saudi Vision 2030, il Paese ha avviato una serie di riforme con l’obiettivo di diversificare al massimo la sua economia, sviluppando settori come la sanità, l’istruzione, le infrastrutture, le attività ricreative e il turismo.

Come si muove il comparto del franchising saudita? Chi investe e dove?

«Negli ultimi 10 anni è cresciuta di 10 volte la presenza di brand di franchising che operano in Arabia Saudita (dati Global Franchise). Nel food hanno investito celebri catene mondiali come McDonald’s e Red Lobster; nella moda troviamo brand italiani come Gucci e Carpisa; nel beverage hanno aperto un punto vendita Segafredo Zanetti Espresso; solo per fare qualche esempio. Due sono le città sulle quali i brand in franchising puntano maggiormente: la capitale Riad, che può contare su una popolazione di circa 8 milioni di persone, e Gedda, con una popolazione di circa 4 milioni di abitanti. Riad e Gedda rappresentano le città più ricche dello Stato, entrambe situate lungo il Mar Rosso. Tra i settori più promettenti c’è il food che ha ancora diversi territori inesplorati: sebbene la cucina asiatica sia quella con maggiore interesse, c’è posto anche per il cibo italiano. Oltre alla pasta e alla pizza, che sono amate in Arabia Saudita come nel resto del mondo (a Riad ci sono catene di pizzerie italiane, come l’Antica Pizzeria da Michele), c’è spazio, per esempio, anche per le aziende dolciarie».

Oltre al food, ci sono altri settori da tenere sotto la lente di osservazione?

«Il wellness è un’industria che ha avuto una grande crescita, soprattutto quella rivolta alle donne, da quando le normative permettono alle donne di accedere alle palestre. È doveroso annotare che, come succede nel food, questo è un settore nel quale esistono regole di condotta da conoscere prima di pianificare un investimento. In grande fermento e crescita sono poi i servizi IT dedicati a settori specifici. Ha fatto parlare a livello internazionale, per esempio, il caso di successo di Kleen, azienda tecnologica che sviluppa soluzioni per lavanderie. La crescita del mercato IT è testimoniata anche dagli investimenti di grandi player.  Oracle ha in programma di investire 1,5 miliardi di dollari in Arabia Saudita nei prossimi anni. L’aumento della domanda di tecnologie cloud ha poi spinto diverse aziende, tra cui Microsoft, Amazon e Google, a creare data center e aprire sedi regionali a Riad».

Se dovessi sintetizzare i punti di forza degli investimenti in franchising in Arabia Saudita, su quali fattori concentreresti la tua attenzione?

«Dal punto di vista normativo, per esempio, le ultime leggi in materia (e che constano di soli 16 articoli) regolano in modo trasparente e agevole le relazioni tra franchisor e franchisee, in tutti gli aspetti del contratto, che deve essere redatto sia in inglese sia in lingua araba. La traduzione in lingua araba è fondamentale perché, in caso di contenzioso, è quella che viene presa come riferimento dalla giustizia saudita. Anche le condizioni fiscali sono favorevoli: l’Arabia Saudita adotta un sistema flessibile con poche tasse e aliquote contenute. A partire da quest’anno, l’aliquota fiscale del Paese è del 9% per i redditi imponibili superiore ai 102mila dollari, mentre è zero per redditi inferiori, allo scopo di supportare le piccole imprese e le startup (fonte Fiscomania).  Sono previsti poi anche incentivi e prestiti con tassi di interesse molto ridotti, come spiegato sul sito della Camera di Commercio Saudita».

C’è altro?

«Sì, se è vero che il mercato dei grandi brand franchise è in mano a ricche famiglie saudite, in quello che si configura come un vero e proprio oligopolio, un franchisor emergente potrebbe però stuzzicare l’interesse di queste famiglie attraverso strategie di marketing in loco oppure   attrarre una categoria di imprenditori meno high spending interessata a diversificare e a mettersi in proprio con business model italiani.

Infine, quali sono i campanelli d’allarme di cui gli imprenditori devono tener conto?

«Tra i contro dell’investimento c’è sicuramente la barriera culturale. L’imprenditore che vuole scommettere sul mercato saudita deve conoscere bene la cultura locale ed essere consapevole che la religione influenza l’economia in modo determinante, anche se ci sono da registrare delle aperture (ma ancora insufficienti) nei confronti delle donne, come la possibilità di avviare attività imprenditoriale senza il permesso del wali, il tutore di sesso maschile previsto per legge. Chi investe nel food, inoltre, ha vincoli ben precisi da rispettare: la proibizione della carne di maiale e, soprattutto, dell’alcol che elimina la possibilità di una grande fetta di guadagno».

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