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Dove l’intelligenza artificiale distruggerà il lavoro dell’uomo

Un braccio robotico sviluppato dalla Johns Hopkins University.

L’intelligenza artificiale cambierà il mondo, questo è certo. Se invece saremo pronti, come società e cultura, ad affrontarla nel modo corretto, è un discorso completamente diverso. L’occupazione sarà il campo sicuramente più critico: le aziende puntano alla produttività, ricreando però lo spettro della disoccupazione creata dalle prime due rivoluzioni industriali. Allo stesso modo in cui a fine ‘800 l’introduzione di nuovi macchinari rese inutile parte della manodopera tradizionale, oggi non tutti sono fiduciosi che il passaggio sarà indolore.

Eppure in Italia il percepito è diverso e addirittura favorevole agli algoritmi automatici: il 94% del campione intervistato da un’indagine di CapGemini sostiene che l’intelligenza artificiale (Ia) abbia creato nuovi “ruoli” all’interno dell’azienda e il 64% ritiene che gli attuali posti di lavoro nella propria azienda non siano a rischio.

Il lavoro resta comunque l’aspetto sociale più importante dell’”invasione” delle intelligenze artificiali nelle aziende. Su questo punto Amedeo Cesta, presidente dell’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale (Ai*ia) oltre che ricercatore per il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), e Piero Poccianti, vicepresidente dell’associazione, sono già in grado di individuare i settori dove l’Ia ha più spazio di manovra: “Le previsioni di maggiore impatto riguardano i trasporti, la robotica per la casa, la sanità e l’educazione. Un altro mondo che vedrà impatti importanti è quello dei call center, dove esistono già applicazioni in grado di colloquiare e rispondere a molte richieste degli utenti in modo autonomo”.

Tuttavia per ora lo spettro resta lontano, spiegano i due esperti: “Uno studio di McKinsey (relativo al mercato statunitense, ndr) dice che soltanto una minima parte dei lavori è a oggi completamente sostituibile, ma sono tutti ottimizzabili in percentuali variabili”. Per esempio, è plausibile credere che serviranno “più ingegneri con alte capacità che creeranno prodotti e servizi innovativi. Questi prodotti e servizi poi evolveranno in modo autonomo, mentre gli ingegneri si dedicheranno ad altro”.

Effetti lontani, ma abbastanza vicini da rendere l’intelligenza artificiale un tema da analizzare già ora che le aziende si trovano in fase di approccio iniziale. Il problema sta nel mezzo, come si dice, e può potenzialmente riguardare milioni di persone: “I lavori meno qualificati e quelli più qualificati sono la coda” evidenzia Poccianti. “Spariranno prima quelli «al centro», specialmente se l’interazione umana è minore. I lavori meno qualificati sono anche quelli, soprattutto in questo momento, che vengono pagati di meno. E sebbene l’automatizzazione permetta di organizzarli meglio, da un punto di vista economico semplicemente non ne vale la pena. Ci sono altri lavori invece – come può essere lo psicologo o il massaggiatore – in cui sostituire l’interazione umana è ancora molto difficile”.

“Il problema è che l’evoluzione tecnologica di per sé non può essere fermata e ha sempre prodotto cambiamenti” commenta Cesta. “Viviamo un momento storico in cui i cambiamenti sono molto veloci – anche a pochi anni di distanza fra loro – e spesso non c’è il tempo di adattarsi. Anche quando è nata la stampa è sparito un mestiere, ma nel tempo ne sono stati creati altri. In questo momento, invece, la velocità è molto più alta e prima ancora di adattarcisi ce n’è già un’altra pronta”.

L’intelligenza artificiale però è qui per restare. Come lo sono le stampanti 3D, i robot e macchine sempre più complesse, ma soprattutto sempre più autonome. L’Ia non è il problema; l’Ia è un catalizzatore di dinamiche sociali ed economiche che già ora stanno mostrando le loro crepe: la popolazione mondiale è in costante aumento, l’età pensionabile viene spostata sempre più avanti e lo spazio per nuovi posti di lavori si sta esaurendo. L’Ia può essere parte del problema e parte della soluzione.

Senza dimenticare un altro fronte aperto: la necessità che le soluzioni di questo tipo non siano proposte unicamente dai colossi stranieri. “Le aziende ora sono trainate dall’offerta dei grandi fornitori americani: Google, Microsoft, Amazon per esempio”, spiega Poccianti. “In Italia ci sono però tante piccole realtà, sia aziende sia università, che talvolta hanno prodotti migliori perché, magari, tarati sulla lingua italiana. Se non costruiamo offerte europee corriamo un rischio di sudditanza industriale e culturale”. Perché “dentro i sistemi delle società americane vanno a finire i nostri dati e le nostre conoscenze. È vero che queste aziende rispettano le regole europee, ma” – conclude –  “potrebbero cambiare idea all’improvviso”.

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