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Black Mirror ora è soltanto colpa nostra

Un’immagine di un episodio della quarta stagione di Black Mirror.

In Black Mirror le api non sono quello che sembrano. E infatti nel sesto episodio della terza stagione non sono insetti ma api-drone, il cui utilizzo primario è quello di impollinare la flora, quello secondario un sistema di sorveglianza di massa governativo, e marginalmente sono anche usate come proiettili. Black Mirror è una serie antologica di culto nata da un’idea di Charlie Brooker e Annabel Jones nel 2011 per Channel 4, venduta a Netflix che ne ha acquistato i diritti di messa in streaming e ne ha prodotto altre due stagioni: la terza di sei episodi diffusa l’anno scorso e la quarta che è prevista su Netflix per il prossimo 29 dicembre 2017. Il tema inter-episodico è il rapporto tra uomo e tecnologia: lo schermo nero è quello spento di un dispositivo che continua a riflettere, e non smette di osservarci e ossessionarci.

Il futuro è adesso. Siamo abituati a pensare a Black Mirror come a una serie distopica sul futuro e invece è una serie iperrealista sul presente. “Sembra la trama di un episodio di Black Mirror” è il commento a ogni notizia della stampa che rimanda alle trame della serie in cui la tecnologia diventa uno strumento ansiogeno di sorveglianza o di controllo. “Sembra la realtà” è ciò che pensiamo guardando un episodio qualsiasi della serie, dal ranking sociale che ci cataloga esistenzialmente come oggetti di TripAdvisor, all’incapacità di dimenticare tutto ciò che succede, ai ricatti online. Black Mirror è una serie contemporanea che ci parla di scenari plausibili in un mondo in cui la tecnologia è sempre più pervasiva. Il successo è dovuto al fatto che capiamo ciò di cui parla.

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Dal punto di vista temporale ci troviamo in un universo parallelo al nostro, dominato dall’uomo attraverso la tecnologia, come scrive Damiano Garofalo, docente di linguaggi radiotelevisivi alla Sapienza di Roma, nel suo BLACK MIRROR – Memorie dal futuro (Edizioni estemporanee, 2018). Una serie costruita sui peggiori incubi delle critiche poste dagli scettici della cultura digitale: i temi legati alla memoria e alla percezione della realtà, esasperando le critiche di Nicholas Carr sul modo in cui internet ci instupidisce; le profezie sulla singularity di Ray Kurzweil in cui le macchine saranno più intelligenti di noi e ci troveremo sopraffatti, come nella recente serie tv Westworld (Hbo); quelle “ingenuità della rete” di cui s’è occupato Evgeny Morozov nel criticare chi pensa basti connettere tutti (come vuole fare Mark Zuckerberg) per creare libertà e democrazia. Sotto l’amministrazione Obama eravamo tutti ottimisti: la tecnologia generava aspettative, intelligenza collettiva, condivisione dei saperi e primavere rivoluzionarie; la vittoria di Donald Trump, e il suo account Twitter, ci hanno riportato alla realtà.

I tecno-entusiasti degli anni ’90 sono diventati gli ingenui della rete nel 2000 e sono finiti tutti per essere plausibili personaggi di Black Mirror. Garofalo parte da un’analisi del medium e del racconto trans-mediale televisivo, per poi analizzare il rapporto tra l’uomo e il dispositivo tecnologico nei singoli episodi della serie. L’ipotesi è che non si tratti di un futuro distopico ma di un presente parallelo in cui ci troviamo di fronte a “preoccupazioni future sugli esiti di una delega completa ai dispositivi tecnologici”. Garofalo individua nell’episodio White Christmas un’inversione: se nelle prime due stagioni a dominare la narrazione è la sopraffazione della tecnica sull’uomo, nella terza stagione il rapporto s’inverte in un approccio antropocentrico, e l’uomo usa la tecnologia per creare un mondo invivibile.

Immagine da una puntata della quarta stagione di Black Mirror.

Da una parte abbiamo episodi in cui le macchine non possono essere profanate, vincono sempre, si emancipano dall’uomo e lo sostituiscono. Dall’altra uomini che hanno abbandonato principi democratici e usano la tecnologia come forma di controllo, sopraffazione, violenza. Siamo prigionieri di ciò che abbiamo creato per migliorare le nostre vite. Ma non perché la macchina è diventata automa e si è ribellata, ma perché ci ha plasmato. Non siamo di fronte a HAL 9000 o cylon ribelli di Battlestar Galactica, o alla ribellione delle macchine che attraversa l’immaginario cinematografico da Metropolis a Matrix, da Terminator al già citato Westworld. Come scrive Garofalo descrivendo l’ultimo episodio – e il più riuscito della terza stagione – “qui non vige un regime di post-umanesimo, perché l’uomo è ancora saldamente al centro dell’universo. Non possiamo prendercela unicamente con la tecnologia, dunque, se siamo noi stessi a poterla ancora governare a nostro piacimento”. Colpa nostra.

In Odio Universale, episodio finale che chiude al suo meglio la terza stagione, siamo infatti di fronte a una riflessione sulle responsabilità e sulla natura tecnica: di chi è la colpa di tutto questo? In breve: una serie di morti riconduce a delle api-drone. Pare un errore tecnico, un drone che uccide o ferisce una persona non è responsabile delle proprie azioni. Gli investigatori scoprono che tutte le figure pubbliche sono collegate tra loro da un hashtag online: una versione della gogna pubblica portata alle estreme conseguenze, in cui un comportamento stigmatizzato diventa condanna di morte (#deathto). Ma chi è il mandante? Un hacker in cerca di vendetta costruisce l’arma e la carica, ma a sparare siamo noi, “popolo della rete”, lo sciame di indignati.

Il mandante siamo noi che twittiamo, condividiamo, ci arrabbiamo. Noi giustizieri della rete, per usare il titolo italiano di un bel libro di Jon Ronson che raccoglie i casi di chi è stato oggetto dei moralizzatori: lo stigma pubblico fa perdere il controllo e si trasforma in una punizione sproporzionata e duratura, senza possibilità o diritto all’oblio.

Ci sono due modi di apprezzare Black Mirror. Il primo è leggerlo come un corsivo apocalittico: possiedi un cellulare? Morirai. Il secondo è goderselo in quanto rappresentazione di tutto ciò che può andare storto con il concetto di intelligenza artificiale coniato da Pierre Levy, perché quando al posto di un gruppo di persone mediamente intelligenti hai a disposizione cittadini disumanizzati e dissennati, un governo totalitario e leggi punitive, non sei di fronte all’illuminismo tecnologico ma a uno schermo nero, e ciò che riflette sei tu. A quel punto è consigliabile staccare ogni spina e allontanarsi da qualsiasi dispositivo. E fare attenzione alle api.

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