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E se provassimo a immaginare una Corea unita?

Un soldato nordcoreano guarda un omologo del Sud nel villaggio di confine di Panmunjom.

Con una guerra alle porte è un po’ complicato tifare per l’abolizione dei confini. Con il presidente degli Stati Uniti, da un lato, che twitta che il suo bottone nucleare è “più grande” di quello del dittatore nordcoreano, che dal canto suo gli risponde dandogli del vecchio rimbambito, verrebbe piuttosto voglia di pensare a una puntata di Thunderbirds. Difficile, in uno scenario simile, immaginare degli adulti seduti in una stanza a discutere di futuro e prosperità. Con un po’ di fantasia, però, potremmo ipotizzare cosa succederebbe se i leader supremi di Washington e di Pyongyang smettessero di fare della diplomazia delirante. Anche perché l’ipotesi di una penisola coreana lontana dal conflitto nucleare, fuori da narrazioni tra il distopico e il patetico, e senza nemmeno frontiere interne è alquanto remota, ma è troppo suggestiva per non prenderla quantomeno in considerazione.

Basti pensare a cosa potrebbero diventare le due Coree, quella del Nord e quella del Sud, unite sotto una sola bandiera: innanzitutto un paese da 75 milioni di abitanti (25 al Nord, 51 al Sud) distribuiti piuttosto densamente su una superficie di un terzo più piccola dell’Italia. Il Nord porterebbe in dote una manodopera a basso costo istruita e quasi illimitata, una ricerca sul nucleare a uno stadio (pare) avanzato, pronta a essere riconvertita per uso civile; il Sud, dal canto suo, porterebbe capitali strepitosi da impiegare per costruire strade, aeroporti, edifici civili, infrastrutture industriali, una nuova rete elettrica. Soprattutto, potrebbero essere utilizzati per trovare un nuovo lavoro al milione circa di forze permanenti e oltre sei milioni di riservisti del Nord, il quarto esercito più vasto della terra: praticamente un cittadino su tre reclutabile in ogni momento. Secondo una ricerca di Goldman Sachs datata 2009, questo “fenomeno” potrebbe avere nel 2050 un Pil di seimila miliardi di euro, diventando la quarta o quinta potenza economica mondiale, con relazioni commerciali già consolidate in tutto il mondo e la capacità di difendersi da sola.

Chi sono gli adulti nella stanza?

Ma questa sceneggiatura idilliaca finisce col colpevolizzare oltre ogni modo il regime di Kim Jong-un e la sua nemesi statunitense. La situazione è ovviamente un po’ più complicata di così. Proseguendo con la metafora con la quale abbiamo iniziato, gli “adulti nella stanza” sono il governo cinese e quello della Corea del Sud. Da parte di Seoul, il problema è presto detto: nessuno vorrebbe farsi carico di una massa di decine di milioni di profughi economici dal Nord, e sobbarcarsi una ricostruzione che potrebbe costare, calcola un professore dell’Australian National University, circa tremila miliardi di dollari. Secondo i critici più pessimisti, il precedente storico della riunificazione delle due Germanie , nel 1990, vale ma fino a un certo punto: allora la differenza di reddito tra Ovest ed Est era 3:1; tra Corea del Nord e quella del Sud sarebbe 20:1. In più, dalla stesura del filo spinato lungo il 38° parallelo dopo la guerra del 1950-53, i due paesi hanno sviluppato culture proprie, dialetti propri, con il Nord ossessionato dalla purezza etnica.

La posizione cinese è più contorta. Secondo una corrente di pensiero piuttosto forte, di cui si è fatto sintesi l’ex funzionario inglese dell’Onu Andrew MacLeod, sarebbe Pechino la vera mente dietro le minacce nordcoreane: “Quello che i cinesi vogliono è proprio questo: far continuare a spendere gli americani”, ha scritto MacLeod. Spendere dove? In armamenti, prima di tutto. E quindi prendere in prestito. Proprio dalla Cina. Fermi tutti: proviamo a riassumere questo piano machiavellico. Gli Stati Uniti, come succede da decenni, importano tantissimo dalla Cina; una parte dei dollari guadagnati dalle imprese cinesi vengono però investiti da Pechino nell’obbligazione più sicura che può trovare: buoni del tesoro statunitensi; massicci investimenti di questo tipo mantengono il dollaro forte. Che vuol dire soltanto una cosa: ancora più import dalla Cina. In poche parole, per mantenere questa macchina sempre oliata, Pechino si comporterebbe come il vetraio interpretato da Chaplin, che assolda un monello per rompere finestre alla gente. Ma quanto può durare un trucchetto del genere?

Provando a “seguire i soldi”, in realtà, si scoprirebbe qualcosa che non torna. È certamente vero che la fetta di debito pubblico in mano cinese si è allargata esponenzialmente negli ultimi dieci anni, proprio mentre il processo di unificazione è deragliato (in particolare, dal 2008 in poi). Se Pechino è di gran lunga il primo possessore straniero di U.S. Treasuries, con riserve per circa milleduecento miliardi di dollari, il Congresso ha approvato un budget per la difesa stratosferico, pompando quasi settecento miliardi di dollari verso il Pentagono (citando anche i missili di Pyongyang come minaccia; tuttavia, la percentuale di budget effettivamente attribuibile allo spauracchio è indefinibile). Ma è anche vero che, a partire dall’elezione di Trump, la Cina ha iniziato a vendere le sue partecipazioni a ritmo piuttosto sostenuto. Se da un lato questo è attribuibile all’incertezza per le politiche trumpiane (ma non dovevano essere contenti dell’instabilità?) ci sono anche altri problemi domestici che preoccupano i cinesi: un sistema creditizio che non funziona a dovere, una popolazione sempre più decrepita, uno yuan che si sta deprezzando troppo. Sono calcoli così complessi da non poter essere approfonditi qui: ma nessuno di questi, comunque, contrasterebbe con la nascita di un mercato di 75 milioni di persone a ridosso della Cina.

Emissari dei due governi coreani si incontrano nel villaggio di Panmunjom, 2015.

Oltre a questo, ci sono argomenti meno articolati che spingerebbero a essere più possibilisti: un sondaggio del 2014 dava l’80% dei sudcoreani “interessati” all’unificazione, purché avvenisse lungo le linee del proprio modello democratico ed economico. Persino un campione di 100 nordcoreani in viaggio per lavoro, accuratamente selezionati tra cittadini non facenti parte dell’élite​, si diceva in larga parte entusiasta della prospettiva, e anche piuttosto consapevole che a prevalere sarà probabilmente il modello del Sud. Tuttavia, i giovani sudcoreani non sembrano affatto entusiasti dell’idea di pagare una “tassa per la riunificazione”, cioè per assorbire i cugini impoveriti da settant’anni di isolamento, in politica estera i ventenni sembrano più aggressivi dei trenta-quarantenni. Da qualunque lato si guardi la questione, non ci sono molti motivi per non volere una Corea unita, e non volerla ora, prima che sia troppo tardi. Se le cose dovessero andare così, dato che la guerra è economicamente irrazionale – e lo sarebbe ancor di più tenendo conto della sproporzione tra i contendenti – questa storia potrebbe finire come una favola: “E vissero tutti felici e contenti”. Ancora una volta, nella storia mondiale non fila sempre tutto liscio.

Quello che i numeri non spiegano

Nel marzo del 1999, Thomas Friedman espose la sua teoria degli “archi d’oro”, secondo la quale non vi è mai stata, né mai vi sarebbe stata, guerra tra due paesi nei quali avesse sede un ristorante McDonald’s (dal caratteristico simbolo dei golden arches, appunto). La teoria era che gli Stati non potessero andare in guerra ignorando quel deterrente rappresentato dal cosiddetto “razionalismo economico”. Tre mesi dopo, gli Stati Uniti bombardavano il McDonald’s di Belgrado. Quando i populisti dicono che è la bomba atomica, e non la pietà umana, l’unica cosa che protegge un regime fuori dal tempo come quello di Pyongyang, privo di qualsiasi simbolo del consumismo avanzato, non dicono una totale menzogna. Sfortunatamente per i coreani, la bomba è anche l’unica cosa che li separa da un destino più clemente. Il punto è che gli Stati, piaccia o no, possono fare la guerra anche ignorando ogni razionalismo.

Citando come case study esemplari gli interventi occidentali in Kosovo (1999), Afghanistan (2001) e Iraq (2003), ammiccando al potenziale economico di una Corea riunificata, la storia sembra suggerire a Washington che sussidiare il nemico converrebbe più che annientarlo. La guerra per le complicate e fragili democrazie liberali è davvero troppo costosa – in tutti i sensi – e se consideriamo pure il magro bottino che l’economia americana potrebbe “ricavare” da una Corea del Nord in rovine, c’è da sentirsi male. Ma non è detto che il governo di Pyongyang ragioni allo stesso modo: persino una guerra che alla fine si conclude con una sconfitta può avere un senso per l’élite di una dittatura che vuole vita breve ma intensa e piena di sperperi. Del resto, se Saddam Hussein ha provato ad annettere il Kuwait nonostante i costi fossero incredibilmente alti, è anche perché l’orizzonte politico di un regime autoritario è più corto di quello di uno costituzionale.

Un’ulteriore ragione per cui il regime di Pyongyang potrebbe continuare col gioco della guerra è che, almeno nella prima fase delle ostilità, gli esiti militari non sono strettamente determinati dal potere economico. Nella Prima e soprattutto nella Seconda guerra mondiale, i tedeschi inflissero agli Alleati un numero di perdite notevolmente maggiore (di un terzo nel primo caso, di due volte e mezza nel secondo) pur partendo da una condizione di oggettivo svantaggio: economico, militare e demografico. E pur, soprattutto, finendo col perdere. La finanza non è tutto, quando l’inferiorità può essere compensata infatti dalla mobilitazione, dalla propaganda, dal morale, dall’«appetito per la distruzione». O forse, come noterebbe il colonnello Kurtz di Apocalypse Now, da una superiore capacità di sopportazione dei sacrifici da parte dei regimi non democratici.

Il paradosso è che, senza il sostegno di un pubblico già amareggiato dai ricordi iracheni e afgani, la politica estera del Golia-Trump potrebbe essere frustrata da un Davide-Kim che del consenso se ne infischia; che magari, dal suo bunker, pensa già al dividendo ottenibile dalla svendita del patrimonio statale dopo la guerra. O senza alcuna guerra.

Ma per la riunificazione è davvero necessaria la democrazia?

Se le cose stanno così, non si capisce perché non si potrebbe provare a disinnescare “la minaccia” nordcoreana proponendo all’élite totalitaria di Pyongyang un vero affare: la riunificazione, e dunque la pace, in cambio di uno spicchio consistente di aziende pubbliche che verranno poi privatizzate. Un po’ come avvenuto con gli oligarchi della Russia di Eltsin. Forse, il regime sta bluffando e, come in una bolla, le sue “azioni” hanno raggiunto il picco prima di essere vendute. O forse c’è qualcos’altro. Forse l’Occidente è paralizzato dal feticcio della democrazia.

Manifestazione anti-nordcoreana a Seul, 2016.

L’opinione per cui democrazia e progresso economico si rafforzano a vicenda è ancora oggi una potente ortodossia. Dal sociologo americano Francis Fukuyama che riecheggiando Hegel parlava di una storia “progressiva e unidirezionale”, al Premio Nobel Amartya Sen, secondo il quale la libertà, desiderabile di per sé, ha anche una giustificazione strumentale di natura economica. Eppure, molto spesso, quando l’economia si è trovata a scegliere tra anarchia e tirannide, ha scelto la tirannide. Preferendo, per usare le parole dell’economista Mancur Olson, i “briganti stanziali” sul modello delle monarchie medievali all’incertezza del multipartitismo e della “trasparenza”. E come insegnano l’Europa degli degli anni ’20 o un’economia avanzata come la Jugoslavia degli anni ’90, non sempre democrazia e sviluppo sono una garanzia di stabilità.

Cina, Singapore e la Corea del Sud hanno goduto per decenni di rapida crescita economica sebbene in essi non vi fosse alcuna parvenza di democrazia. Seoul ha riacquistato una sorta di democrazia formale soltanto con l’instaurazione della Sesta Repubblica, nel 1987, e nonostante ciò le Olimpiadi del 1988 furono uno scempio di demolizioni brutali, censura mediatica e corruzione diffusa. Non tutti i regimi hanno gli stessi esiti. Se il sistema comunista novecentesco era ben noto per sprecare risorse, dal 1950 al 1975 le dittature fasciste di Grecia, Portogallo e Spagna sono cresciute più velocemente di molti altri paesi democratici. Secondo l’economista David Landes, un governo “ideale”, capace di garantire “crescita e sviluppo”, non deve “necessariamente essere democratico”. Ben prima della Cina, esempi di dittature che sono coesistite con la crescita sono stati il governo Pinochet in Cile, l’amministrazione Fujimori in Perù e il regime dello Scià di Persia. Insomma: così come l’Inghilterra settecentesca, la Corea del Nord potrebbe realizzare la sua rivoluzione industriale ben prima di adottare il suffragio universale.

Se sembra plausibile l’ipotesi fantasiosa che la crescita economica di una Corea unita possa incoraggiare l’evoluzione di istituzioni democratiche (con sindacati, organismi di controllo della concorrenza, università libere, etc.), è così certo il contrario? C’è davvero bisogno di aspettare la democratizzazione completa di Pyongyang per stimolare la crescita economica?
In fondo, sarebbe più onesto prepararsi a un processo in più fasi, in cui la concessione di diritti civili e politici possa seguire molto lentamente quella dei diritti economici e mercantili. Garantito – si spera – che negli accordi di pace venga incluso l’immediato rilascio dei prigionieri politici e il ricongiungimento dei familiari separati dal ’53, per i primi cinque anni l’unificazione potrebbe essere esclusivamente commerciale, con l’apertura del nord agli investimenti esteri e una massiccia campagna di opere infrastrutturali. Aumentando gradualmente il numero di visti rilasciati da sud a nord, l’integrazione economica avrebbe così più l’aspetto di un assorbimento che di uno shock; i successivi cinque anni potrebbero essere dedicati all’uniformità fiscale e monetaria. Solo dopo un decennio si potrà vedere se l’esame è stato effettivamente superato: il rilascio del passaporto unico, e la definitiva liquidazione della nomenclatura autarchica saranno probabilmente tra gli ultimi passaggi dell’operazione.

E non è da escludere che una Corea unita si possa assestare come una federazione di stampo capitalista “a due teste”, con una sorta di monarchia monopartitica al nord e una repubblica semipresidenziale al sud. Un regime autoritario può essere “tecnocratico” e al tempo stesso “populista”, proprio perché la democrazia non è “un fattore critico di crescita”, come spiega l’economista americano Robert Barro: “Quando il livello dei diritti politici è basso, un’espansione degli stessi stimola la crescita economica… Tuttavia, in paesi che hanno già raggiunto alcuni diritti politici, l’ulteriore democratizzazione può ritardare la crescita a causa dell’intensificazione dell’impegno nei programmi sociali e nella redistribuzione del reddito”. Con tutta probabilità, questo è un avvertimento che gli “adulti nella stanza” terranno bene a mente.

Vi sono, quindi, ragioni per immaginare nei prossimi mesi tanto una guerra nucleare quanto una sortita intrepida verso la riunificazione. L’importante è non convenire del tutto su tali conclusioni basandosi esclusivamente sull’intreccio tra calcoli matematici e caricatura degli eventi storici. In sostanza, il nocciolo della questione è che progresso economico non vive in simbiosi con la democrazia, e anche nell’ipotesi più rosea per il popolo coreano l’assetto politico potrebbe essere inquietante. Siamo sempre lì: la motivazione economica non è sempre centrale nelle questioni di ordine mondiale. E un regime autocratico ha un vantaggio negoziale molto più grande delle sue effettive dimensioni.

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