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Dakar Rally: una storia di sogni, sofferenze e affari

Il francese Stephane Peterhansel durante il secondo giorno della Dakar Rally 2018, 7 gennaio.

Una corsa automobilistica nata perché il fondatore si era perso nel deserto non può che essere una corsa particolare. E tra le corse particolari, la Dakar è probabilmente quella più singolare: anche senza le dune dei deserti africani, rimane una delle gare più attraenti e al tempo stesso pericolose dell’intero panorama motoristico.

Una gara, dicevamo, nata in seguito a un incidente: il pilota francese Thierry Sabine, nel 1977, si perse nel deserto africano durante la Abidjan-Nizza. Da lì, l’idea: perché non correre tra le dune? Nel 1978, così, 182 veicoli partirono da Parigi, ma solo 74 arrivarono, 10mila km dopo, a Dakar, la capitale del Senegal. Da quei 182 partecipanti del 1978 si arrivò fino ai 688 del 2005, anno di maggiore popolarità, senza però Sabine, morto nel 1986 in seguito alla caduta dell’elicottero su cui viaggiava per seguire la “sua” gara.

Non certo l’unico incidente, nel corso di quasi 30 anni. Perché la Dakar è stata spesso tragica: fino al 2015 sono stati 28 i partecipanti morti, tra i quali gli italiani Marinoni (1986) e Fabrizio Meoni (vincitore nel 2001 e 2002, deceduto nel 2005). Tragedie che hanno toccato anche 42 persone non in gara, per un totale di 70 morti che hanno portato molte critiche riguardo la sicurezza. “Una storia di sogno. E sofferenza”, come l’ha descritta Marc Coma, direttore sportivo della corsa nonché vincitore di cinque edizioni.

Lo spagnolo Marc Sola Terradellas sulla moto KTM Rally Replica durante il primo giorno della Dakar Rally di quest’anno, 6 gennaio 2018.

Proprio la sicurezza ha costretto gli organizzatori, a partire dal 2009, a cambiare radicalmente la gara: addio all’Africa, si va in America Latina, dove si è corso fino ad oggi. La quarantesima edizione della Dakar è così partita lo scorso 6 gennaio da Lima, in Perù: 525 concorrenti divisi in 5 categorie (moto, quad, auto, camion e buggy side-by-side), 14 tappe, 9mila chilometri tra la costa peruviana fino alle pianure dell’Argentina, per arrivare al traguardo di Cordoba, il 20 gennaio.

Una gara in cui le storie si intrecciano. Al via c’era un’intera famiglia italiana, i Cabini, ritiratisi però per essere arrivati alla terza tappa fuori tempo massimo di 19 minuti. Costretto al ritiro anche un certo Sebastian Loeb, che per i meno preparati è il pilota ad aver vinto il maggior numero di campionati mondiali di rally (nove) nella storia, nonché secondo nella scorsa edizione nella categoria auto e uno dei favoriti per l’edizione 2018. E non è riuscito ad andare oltre alla quarta nemmeno Andrè Villas-Boas, ex allenatore di Porto, Chelsea e Tottenham, che dopo essere rimasto senza panchina ha provato a seguire le orme dello zio Pedro, in gara nell’edizione 1982. Insomma, una gara che non lascia scampo né agli esordienti, né ai grandi campioni. Prosegue, invece, la corsa del “principe” Nasser Al-Attiyah, che non è solo parente dell’emiro del Qatar (una sua zia è madre dell’attuale emiro), ma è anche due volte vincitore della Dakar nella categoria auto e, già che c’era, bronzo olimpico nello skeet a Londra 2012.

Nasser Al Attiyah celebra la vittoria dell’edizione 2015 della Dakar Rally, 17 gennaio 2015 a Buenos Aires, Argentina.

L’aspetto sportivo è ben presente, e spesso si trasforma anche in una lotta per la sopravvivenza. Ma in un evento così non si può dimenticare la questione affari. Perché una corsa del genere non può che attirare grande interessi da sponsor, case costruttrici e media in genere. Partiamo da questi ultimi, visto che si parla di 70 televisioni che mandano in onda le immagini della gara e oltre 1.400 giornalisti accreditati, mentre 4 milioni di spettatori sono attesi lungo il percorso. Il tutto per un giro d’affari che vale circa 300 milioni di dollari di impatto economico per ciascun paese ospitante, in questo caso Perù, Bolivia e Argentina, secondo l’organizzazione della Dakar.

Il Perù per l’edizione 2018 stima un ritorno pari a 300 milioni di dollari, secondo quanto spiegato dal ministro Eduardo Ferreyros: un ritorno pari a 50 volte i circa 6 milioni di dollari investiti dal Perù per organizzare la corsa. Secondo invece il ministro della cultura e del turismo della Bolivia, Wilma Alanoca Mamani, l’impatto per lo stato sudamericano sarà pari a circa 150 milioni di dollari. Infine, nell’edizione 2017 era stato stimato per l’Argentina un ritorno diretto e indiretto pari a oltre 200 milioni di dollari. Merito anche del ritorno d’immagine e pubblicitario dato dalle oltre 1.200 ore di evento trasmesse in 190 paesi a livello mondiali.

Ecco perché non mancano le case motoristiche pronte a partecipare. Tra le moto è dominio KTM (ben 81 moto per la casa austriaca), mentre tra le auto più usate c’è Toyota, seppur le Peugeot siano le favorite (ma all’ultimo anno di corsa), e tra i camion è presente anche l’italiana Iveco. Senza dimenticare i brand legati all’organizzazione, come Motul (multinazionale francese specializzata in lubrificanti) e i fornitori, dai pneumatici statunitensi BFGoodrich fino alla francese Sodexo che si occupa dei servizi di ristorazione. Una grande carovana fatta anche di 20mila agenti di polizia e addetti alla sicurezza, oltre che a servizi medici per la prima assistenza di massimo livello. Tutto per far proseguire una gara nata da un pilota sperduto nel deserto e trasformata in uno delle più seguite competizioni mondiali.

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