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La realtà aumentata vista con gli occhi di chi la fa

Meta Glasses
I Meta Glasses.

Pallavolo e Blade Runner. Difficile pensare abbiano qualcosa in comune. Eppure proprio fra la passione per lo sport e le immagini del futuro si riassume la carriera di Stefano Baldassi. Romano, esperto in psicofisica della visione o, come preferisce lui, “human performance scientist”, Baldassi è a capo dei ricercatori di Meta, azienda della Silicon Valley fra le più promettenti quando si parla di “realtà aumentata”, vale a dire di come potrebbe cambiare il nostro modo di guardare il mondo.

D’accordo, ma la pallavolo? Meglio fare chiarezza, sebbene il caso imponga di partire dalla fine. In una sequenza fra le più riuscite del recente Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve, l’agente K della polizia di Los Angeles, interpretato da Ryan Gosling, conosce una prostituta. Prima che condividano il letto, sul corpo di lei si sovrappone, perfettamente sincronizzata, l’immagine di un’altra donna, la proiezione digitale della persona di cui K è davvero innamorato. Fantascientifico ménage à trois? Forse.

Di certo realtà aumentata, l’arricchimento della percezione umana attraverso informazioni digitali combinate all’ambiente. E con questo interagenti. Detto con più semplicità, un settore che a fronte di un fatturato complessivo di 1,2 miliardi di dollari nel 2016 – di cui almeno la metà mossa dall’applicazione Pokémon GO – secondo le previsioni di Newzoo e SuperData potrebbe valere fra gli 83 e i 94 miliardi nel 2021.

“La chiave di tutto sta nel caratterizzare la tecnologia affinché l’utente abbia un’esperienza quanto più possibile naturale”, spiega Baldassi, “questo è l’obbiettivo del mio team, composto da neuroscienziati, analisti, matematici e designer”. La tecnologia evocata da Baldassi al momento si chiama “Meta 2”, un visore per l’augmented reality, in gergo “AR”, che vanta le prestazioni migliori sul mercato. Non solo consente di visualizzare immagini tridimensionali fissandole all’ambiente circostante; permette di manipolarle a mani nude, senza l’utilizzo di alcuna interfaccia aggiuntiva. Non è poco, se si considera che il settore oggi è un terreno di conquista conteso da colossi come Apple e il suo framework dedicato ARKit, Google e il corrispettivo per Android, ARCore, Amazon, Facebook e soprattutto Samsung e Microsoft, fresche di una partnership per il lancio del device Hmd Odyssey. Sono Golia al cui confronto Meta non può che fare da Davide.

Fondata nel 2012 da Meron Gribetz, studente non laureato della Columbia University già nella lista “Forbes 30 Under 30”, nel 2015 la società ha annunciato un finanziamento Series A di 23 milioni di dollari da parte di investitori fra cui Horizons Ventures, Tim Draper, BOE Optoelectronics, Commodore Partners e Vegas Tech Fund. Il secondo visore dell’azienda, presentato da Gribetz nel febbraio 2016, è il frutto di quel round. C’è chi, fra i più noti tech evangelist della Valley, l’ha definito “il prodotto più importante dopo Apple II”. Facili entusiasmi a parte, a fine anno scorso Meta ha annunciato il secondo giro di finanziamenti da 50 milioni, con fondi di Lenovo, Tencent, Banyan Capital, Comcast Ventures e GQY.

Stefano Baldassi
Stefano Baldassi indossa i Meta Glasses.

“Sorrido se penso che almeno per me tutto è partito dall’amore per la pallavolo”, ricorda Baldassi, “a metà anni ’80, quando avevo 15 o 16 anni, il mio sogno erano le Olimpiadi. Ma visto che i miei 170 centimetri scarsi di statura me le avrebbero precluse da atleta, decisi le avrei vissute come allenatore. Nel volley la differenza fra l’amatore e il campione la fanno le abilità di convertire gli input visivi in decisioni motorie nel modo più efficace e veloce possibile. Dedicarmi alle scienze cognitive, iscrivendomi a Psicologia, mi sembrò il modo migliore per completare i miei studi sulla teoria di questo sport”.

Ai tempi, un’idea piuttosto azzardata. Quasi fantascientifica. “Col senno di poi volevo progettare sistemi di realtà aumentata che consentissero di studiare i meccanismi di interazione e di prestazione umana in performer di alto livello. Inutile dire che quando, nel 2014, scoprì che Gribetz e la sua start up stavano costruendo un visore che sembrava concretizzare un mio progetto di ricerca, non mi parve vero. Già l’estate successiva ero alla Meta come responsabile delle Perceptual Interactions”.

Non che augmented e mixed reality siano un concetto nuovo: il primo visore in grado di evidenziarne le potenzialità fu realizzato addirittura nel 1968 da Ivan Sutherland, Premio Turing 1988, profeta di internet e fra i precursori anche della realtà virtuale, l’altro approccio alla “nuova visione del mondo”.
“Sono due concezioni diverse”, precisa Baldassi, “mentre nella virtual reality, quella accessibile attraverso visori come Oculus Rift o Htc Vive, il concetto di “presenza” indica l’immersione in un mondo separato da quello circostante, la realtà aumentata implica una connessione più profonda col proprio ambienteIl fatto di non separarsi dal contesto in cui si opera consente una quantità inimmaginabile di ambiti applicativi”.

Non è un caso gli analisti prevedano che dei 108 miliardi di dollari complessivamente mossi entro 4 anni da realtà aumentata e virtuale, dalla seconda non ne arriveranno più di 25. “Credo che la realtà virtuale si adatti meglio all’intrattenimento. Meta e i suoi dispositivi AR si orientano invece su educazione, produttività e collaborazione. Il segreto principale consiste nella visualizzazione e manipolazione dei contenuti in tre dimensioni. Sappiamo che lavorare in 3D migliora la rapidità di apprendimento e la ritenzione mnestica, vale a dire la capacità di ricordare quello di cui si è fatto esperienza. Per questo stiamo aiutando chirurghi a contestualizzare l’informazione in modo efficiente nella sala operatoria, collaboriamo con i designer per costruire piattaforme di creazione e valutazione dei modelli, o con gli insegnanti per realizzare infrastrutture didattiche”.

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