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Cultura

The Post e il cinema “in tempo reale”

Meryl Streep in “The Post”.

Quando a fine ottobre 2016 la produttrice Amy Pascal vince un’asta per adattare lo script di The Post di Liz Hannah, alla Casa Bianca siamo alla fine dell’era Obama. Gli Stati Uniti vivono nell’attesa delle elezioni, che di lì a poco, ne sono quasi tutti convinti, vedranno la vittoria schiacciante di Hillary Clinton. Nei siti di cinema dove la notizia esce molto spazio è dato alla vicenda dei Pentagon Papers: il film, si dice, racconterà di quando nel 1971 gli americani scoprirono che i loro presidenti avevano a lungo mentito sulla guerra in Vietnam, continuando a spedire al macello la gioventù d’America solo per non ammettere la sconfitta. A rivelare al mondo questa verità fu il New York Times, che pubblicò parte di documenti top secret; quando Nixon li obbligò a fermare le pubblicazioni di altri articoli sull’argomento, il Washington Post – all’epoca poco più che un giornale locale – sfidò la censura del governo e la galera pubblicando altri stralci dei Papers.

Quando, nel febbraio del 2017, Steven Spielberg salta a bordo della produzione si è da poco consumato l’inaspettato: Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti d’America. In un’intervista a Usa Today per il lancio del film, Spielberg ha dichiarato: “Quando ho letto la prima bozza dello script, ho capito che non potevamo aspettare tre anni, e neanche due: questa era una storia che dovevamo raccontare oggi”. Nove mesi dopo, quando il film esce nelle sale, quell’“oggi” è di nuovo cambiato, anche se impercettibilmente: Donald Trump è ancora al suo posto, con annessi bracci di ferro con la stampa, ma la questione è momentaneamente in secondo piano. La ribalta è tutta per lo scandalo Weinstein, il #MeToo e il Time’s Up, ovvero la deflagrazione di una situazione che pareva immobile da troppo tempo: lo squilibrio sociale e di potere tra uomini e donne.

Guardare The Post al cinema è allora abbastanza impressionante, perché non ci vuole troppa dietrologia per vedere all’opera uno spostamento di fuoco, avvenuto nei relativamente pochi mesi della sua gestazione. Nella sua forma finale il film mantiene uno scheletro di trama che sembra tutto incentrato sul problema della libertà di stampa e del ruolo dei giornali rispetto al potere, del conflitto tra la missione di verità, necessaria per il bene della popolazione, e l’opacità (altrettanto necessaria?) con cui agisce lo Stato.

Una scena del film.

La struttura narrativa è quella del film maschio in cui giganteggia il Ben Bradlee caricaturale di Tom Hanks, mai così impegnato a imitare il suo personaggio nella fronte aggrottata, nei sigari schiacciati con forza contro il posacenere, nelle posture un po’ scimmiesche da direttore di giornale d’altri tempi. Bradlee, colpevole di esser stato a suo tempo troppo amico di John Fitzgerald Kennedy, cerca un riscatto personale, un’occasione per mostrare di essere un reporter con la schiena dritta. Ma dentro questa struttura così squadrata – e così forse banalmente epica – manifesto della Hollywood liberal e democratica schierata compatta contro il mostro Trump, si muove un secondo film, più mobile e morbido: la storia di Katharine Graham, diventata dopo il suicidio del marito proprietaria del Washington Post. In un’epoca in cui tutto il potere era, senza scampo, in mano agli uomini.

La costruzione di questo personaggio è un duetto molto intelligente tra Spielberg e un’incredibile Meryl Streep: se le scene di Bradlee sono secche e veloci, tutte detection giornalistica e discussioni, le scene dedicate a Katharine Graham sembrano rallentare e vivere di dettagli, componendo una sinfonia di vestaglie e occhi lucidi, tentennamenti e confessioni. La vediamo spesso svegliarsi di colpo circondata da faldoni e schedari, a disagio e affaticata, una donna che cerca con tutte le sue forze di essere degna del ruolo così maschile che le è toccato in sorte. Nel consiglio del giornale, popolato di uomini che le dicono cosa fare, Katharine ondeggia tra una posizione e l’altra, così come regge a fatica il confronto con il ruvido direttore della testata. La vicenda dei Pentagon Papers diventerà allora l’occasione per dimostrare il suo coraggio, per fare la scelta più difficile in un momento in cui, in fin dei conti, è l’unica a rischiare davvero tutto (come ammette lo stesso Bradlee nel momento chiave del film, in cui la vecchia anima del film cede il passo alla nuova).

Probabilmente non era nelle intenzioni di Spielberg, ma The Post dimostra, tra le altre cose, che il cinema per sopravvivere deve modulare i suoi tempi lunghi per rispondere alle esigenze del presente. Ne avevamo già avuto una (brutta) dimostrazione nella velocità con cui Ridley Scott ha dovuto sostituire in corsa Kevin Spacey in Tutti i soldi del mondo. Per fortuna Steven Spielberg ha voluto darcene una dimostrazione migliore, facendoci assistere alla metamorfosi di un film che, nato per raccontare soprattutto la battaglia di un uomo per la libertà di stampa, diventa soprattutto il film in cui Steven Spielberg e Meryl Streep raccontano le sfumature della presa di coscienza di una donna.

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