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Come South Bronx è diventato il quartiere del momento a New York

Vista di una strada di South Bronx.

Due bianchi, di cui uno era una giovane donna abbigliata con una giacca blu scuro dell’Avenue Foch, a spalle larghe e imbottite, bagaglio adeguato sul sedile posteriore in quantità sufficiente per un viaggio in Cina, una Mercedes sport da quarantottomila dollari nel bel mezzo del Bronx meridionale. Miracoloso!

Ve lo ricordate, Il falò delle vanità? Un giovane yuppie, bianco ricco e arrogante, investe un ragazzo afroamericano in una strada desolata nel Bronx, il famigerato borough a nord di Manhattan, diventando la preda perfetta di una società che lo vuole spolpare, tra tensioni sociali acutissime e politici che cercano di intascare i loro dividendi. È il 1987. Tom Wolfe, in uno dei suoi libri di maggior successo, dipinge un inquietante affresco degli Stati Uniti reaganiani di quel periodo.

Trent’anni più tardi, uno speculatore appena uscito da Wall Street pagherebbe una Mercedes sportiva almeno tre volte quella cifra. Forse, con un sostanzioso bonus nel portafogli, sceglierebbe di regalarsi un’auto meno kitsch. Forse avrebbe sul cellulare una di quelle app che mettono in guardia dalle strade e dai quartieri “a rischio” (che, tradotto, vuol dire poveri e abitati dalle minoranze). Ma, probabilmente, un giro nel South Bronx non lo spaventerebbe affatto, anzi: immaginiamo pure questo speculatore alla ricerca di una casa di tre piani in stile tradizionale, una brownstone rivestita di mattoni rossi da comprare con denaro contante e trasformare in un condominio di lusso.

Fantascienza? Mica tanto: è quello che succede da almeno un lustro in questo spicchio settentrionale di New York, a lungo trattato come un incubo urbanistico, un mare di criminalità nera e ispanica che assediava le “fortezze”, i famigerati Distretti della polizia caucasica. La cosiddetta gentrificazione – spauracchio per chi non può permettersela, invocata da chi può ricavarci buoni affari – sta toccando anche la sponda a nord del fiume Harlem, con la solita ricetta: investimenti pubblici per rifare strade, marciapiedi, buttare giù vecchi ruderi; e a seguire montagne di dollari delle compagnie immobiliari, palazzine di sette piani con le pareti vetrate che compaiono in lotti deserti da decenni, antiche case coloniche tinteggiate e trasformate in caffè alla moda, con gli immancabili artisti in bicicletta a rappresentare il sintomo (o il virus, secondo alcuni) del cambiamento in atto.

Le contraddizioni degli anni ’80 non sono scomparse del tutto. Nel 2015, il Furman Center della New York University ha nominato le aree di Mott Haven/Hunts Point come due tra le dieci che più si stavano gentrificando in città (il parametro usato era l’aumento mediano degli affitti in aree a basso reddito). Da queste parti, i cantieri e gli operai con l’elmetto giallo sono praticamente ubiqui. Su entrambi i lati del Third Avenue Bridge sono in progettazione grattacieli per la classe facoltosa, negozi di moda, palestre modernissime. Il guaio è che negli ultimi 15 anni l’affitto medio di Mott Haven/Hunts Point è aumentato di un terzo, laddove il reddito medio è diminuito del 16 per cento. Circa il 70% delle famiglie del posto guadagnano 40mila dollari l’anno o meno (per un confronto, il reddito mediano di Manhattan è di 120.000 dollari) e solo il dieci per cento circa degli adulti è andato all’università.

Vista dei “projects”, l’edilizia popolare del South Bronx.

I residenti del South Bronx sembrano consapevoli che lo sviluppo è tumultuoso e non si può fermare, ma sono piuttosto divisi sul da farsi. In molte aree, come Mott Haven, tutti si conoscono, specialmente all’interno della comunità ecuadoregna o messicana, e le divisioni spesso sono al tempo stesso ideologiche e personali. Il diciottenne figlio di immigrati di Oaxaca, nato e cresciuto nella zona, come dovrà giudicare l’amica influencer che decida di aprire la sua boutique a due passi dal porto? La giovane coppia arrivata da Brooklyn per sfuggire agli hipster, quella che con tanta gentilezza porta in giro dei membri di Couchsurfing alla scoperta del quartiere, è un’opportunità o una minaccia? E cosa dire degli afroamericani che scelgono di aprire un bistrot interamente gestito da gente della loro etnia, in un processo che qualcuno ha definito di self-gentrification?

Ovviamente stanno già nascendo i primi, sconcertanti neologismi della toponomastica: SoBro (crasi di “South Bronx”), oppure Piano District, entrambi presto abortiti. On the 6, l’album di debutto di Jennifer Lopez, era dedicato alla metropolitana che la cantante in erba prendeva ogni giorno per andare dal Bronx a Manhattan, tra ritardi, sporcizia perenne e affollamenti: è ancora così, parte dell’identità newyorchese tanto quanto i ratti che la popolano, sempre più grassi e intraprendenti (talvolta diventano addirittura star di YouTube).  Ma oggi la bronxenette più famosa al mondo è Cardi B, 25 anni, nativa di Highbridge e inserita da Forbes nei suoi Under 30: “Non c’è ghetto più ghetto del mio”, ripete, mentre si appresta a fare il tutto esaurito al Barclays Center.

“Vi assicuro che un tipo come Wolfe non resisterebbe cinque minuti a Belmont”, spiegava al New York Times trent’anni fa il presidente del Bronx, riferendosi a una delle zone più tranquille del borough. “Figuriamoci nel South Bronx, camminando vestito in quel modo”. Il cuore del South Bronx sono quartieri come Port Morris, Mott Haven, Morrisania. Ai tempi de Il falò delle vanità, erano ancora impresse nella memoria di tutti le immagini dei saccheggi durante il blackout del ‘77, i numerosi incendi appiccati verso la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80 dai proprietari che volevano intascare i soldi delle assicurazioni e scapparsene nell’Upstate.

La rinascita è iniziata indubbiamente con gli anni ’90, anche se i meriti effettivi del sindaco di ferro Rudolph Giuliani sono stati oggetto di lungo dibattito: prima il mito del CompStat, dell’analisi computerizzata del crimine, la teoria delle “finestre rotte”, la polizia che andava a prendere casa per casa i sociopatici e gli “indesiderabili” per costringerli a lavorare, pena la persecuzione. I primi risultati, i turisti che aumentano vertiginosamente, il tasso di omicidi che scende fino a precipitare sotto i quattrocento l’anno – una delle metropoli più sicure d’America se non dell’intero emisfero occidentale – e le casse comunali che tornano e riempirsi; la Borsa che festeggia, i grandi filantropi che investono in musei e monumenti. Poi però ci sono gli effetti collaterali della tolleranza zero e dello sviluppo diseguale: galere sempre piene – e in alcuni casi disumane, come Rykers Island – prezzi alle stelle e sempre più persone costrette a fare due, tre lavori per tirare a campare.

Vita a South Bronx.

Il Bronx raccoglie i frutti del boom economico newyorchese dei ’90 e dei primi Duemila, nonostante il terrore dell’11/9, riducendo il numero di persone in cerca di lavoro e gli sbandati; le gang vengono smantellate una dopo l’altra; ai bianchi in fuga succedono le nuove generazioni dai Paesi latini e dall’Africa, che si impiegano nel settore edile, nella ristorazione, nei trasporti e nel manifatturiero. A una Manhattan sempre più glaciale, finanziarizzata, iper-controllata e tirata a lucido, a una Brooklyn e un Queens sempre più frontiera della speculazione abitativa, si contrappone un Bronx ancora malfamato, ma placato, con i suoi angoli di anarchia, di irrazionalità, con una working class tenace e minoranze giovani e orgogliose.

Oggi ci sono itinerari consigliati su Tripadvisor o Airbnb che prevedono una passeggiata di svariati chilometri sulla Grand Concourse, la principale arteria stradale del Bronx progettata dal tirannico Robert Moses, e camminate tra il Bronx Museum of Art, la Bronx Walk of Fame (dove i residenti più famosi sono immortalati su targhe dorate) i murali dell’ufficio delle Poste – dipinti da Ben Shanhn durante la Depressione – e il mitologico Yankee Stadium, abbattuto e poi ricostruito come l’originale, una decina d’anni fa.

Piuttosto che da tipi come Wolfe – che oggi verrebbe scambiato per un vetusto landlord rimbambito – il quartiere è attraversato dagli studenti della Columbia, troppo indebitati per potersi permettere uno studio a Manhattan, che ciondolano tra le bodegas e le pizzerie sulla Concourse. E se molte ragazze girano con spray irritanti e oggetti di autodifesa, è vero anche che la paura di camminare da sole, per strada, è sostanzialmente scomparsa. Uber, ovviamente, arriva in tranquillità anche qua. Nulla a che vedere con le dicerie e gli avvertimenti ai quali vieni sottoposto dai progressisti parigini quando prendi casa a Barbès-Rochechouart, ad esempio.

Il problema, come riporta il New York Times, è che tutto questo ha un costo: gli affitti sempre più alti, anche in appartamenti un tempo evitati da bianchi e occupati soltanto dalle numerosissime famiglie di immigrati. Delle 15 contee più costose per prendere casa, si legge in uno studio, ben quattro appartengono alla città di New York: Manhattan, Brooklyn, Queens e The Bronx, appunto. C’è chi tenta di reagire come può, a cominciare dai latinos che, dopo aver preso il posto degli europei (italiani e irlandesi soprattutto) negli anni ’70 e ’80, adesso stanno cercando di ottenere edifici in disuso per ricavarci dei centri culturali o educativi.

Da qualche giorno si è conclusa la seconda edizione Bronx Art Expo, dove centinaia di giovani artisti e curatori, designer, pittori e scultori – principalmente local – si sono confrontati in un garage dalle pareti ricoperte da graffiti e scarabocchi. La parola d’ordine era, in effetti, locally produced: dalla proprietà alla birra, dall’attrezzatura allo staff, per finire proprio con gli artisti residenti, il mantra è liberarsi dai vecchi complessi, dal senso di inadeguatezza nei confronti del resto della città. Ma l’arte non è essa stessa un magnete per gli speculatori? Nel frattempo i fondatori dell’Expo, i fratelli Monica e Jose Flores, spiegano come le soddisfazioni arrivino anche dalle piccole cose: “Quando le persone arrivano ti ringraziano, perché pensavano che sarebbero dovute andare a Brooklyn o Manhattan per eventi del genere.”

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