Il Bun Bang Fai Rocket Festival a Yasothon, Thailandia, nel 2015.

Una volta una studentessa ha chiesto a Steven Pinker, professore di psicologia a Harvard, “perché vale la pena vivere?”. Non che la ragazza fosse depressa, ma condivideva un dubbio piuttosto diffuso: vale la pena affrontare ciò che ci circonda? Pinker per risponderle ha scritto un intero libro, Enlightenment Now. Un saggio che spiega un dato di fatto controintuitivo, ma vero: nel mondo le cose migliorano, e probabilmente continueranno a farlo. Le guerre sono sempre meno, il numero degli istruiti aumenta, l’acqua potabile raggiunge sempre più zone del nostro pianeta, le minoranze sono sempre meno discriminate e persino la violenza sulle donne – anche se dirlo di questi tempi suona strano – è in costante diminuzione. Bill Gates lo ha definito “il libro più stimolante che abbia mai letto”.

L’opera fa da seguito a The Better Angels of Our Nature, il longseller pubblicato da Pinker nel 2011. E anche in questo nuovo saggio sono i dati a occupare la maggior parte del testo; dati che servono a confutare il pessimismo così profondamente radicato in noi. Un pessimismo che ha delle cause precise: innanzitutto cognitive, visto che tendiamo a ricordare più facilmente situazioni negative (pericolose, violente e tragiche) rispetto a quelle positive, pacifiche e “normali”. Poi ci sono le cause comunicative, perché questo bias cognitivo ne causa uno informativo. Stando a ciò che i media scelgono di considerare come “notizia”, il nostro sembrerebbe un mondo fatto di scandali, reati, carestie e disastri ambientali. Ma non è così: stiamo solo diffondendo in modo sempre più capillare notizie su avvenimenti che in realtà sono sempre più rari. Riceviamo molte più informazioni su fatti tragici, ma ad aumentare è solo la pervasività delle notizie, non gli avvenimenti tragici che vengono raccontati. Questo miglioramento globale ha molte cause, ma secondo Pinker una delle più importanti è il progressivo aumento dell’empatia. Eppure è proprio l’empatia a creare questa differenza tra mondo reale e mondo percepito, perché se da una parte la nostra crescente sensibilità ci fa evitare il conflitto e le violenze, dall’altra rende più attraenti le notizie su questi temi. Insomma, siamo diventati più pacifici, ma anche più facilmente scandalizzabili, quindi stentiamo ad accorgercene.

Pinker rivendica con toni entusiastici posizioni progressiste e intinte di un umanesimo razionalista, ma è consapevole che oggi non siano in voga. Essere degli ottimisti non è propriamente il trend politico di questi anni, dominati invece dall’ascesa dei populismi, che sul presente propongono idee pessimiste e disfattiste. Per questo Pinker dedica così tanto spazio ai dati, e sembra dire: non sarò io a convincervi, ma l’evidenza dei fatti. Perché, scrive, il “progresso è misurabile”. Quello nel campo dei diritti, per esempio, non si vede solo nelle opinioni delle persone o nei miglioramenti legislativi, ma proprio nei dati: tra gli afroamericani la povertà è scesa dal 55% del 1960 al 27,6% del 2011. L’aspettativa di vita è passata dai 33 anni del 1900 (17,6 anni meno di quella della popolazione bianca) ai 75,6 anni del 2015 (meno di tre anni in meno). Gli afroamericani che arrivano a 65 anni hanno un’aspettativa di vita maggiore rispetto ai bianchi della stessa età. La percentuale di analfabetismo tra gli afroamericani è calata dal 45% del 1900 al quasi 0% di oggi. Ma soprattutto: il gap razziale della preparazione scolastica è fortemente diminuito, così come (e su questo c’è un intero capitolo, il diciottesimo) il gap razziale della felicità.

Eppure, anche se la felicità è sempre meno un’esclusiva di chi ha la pelle chiara, in termini assoluti non è aumentata, ma è rimasta stabile. Come nel monologo del comico Louis C.K., “everything is amazing but nobody’s happy”: il comico descrive come si sia profondamente ingrati rispetto al progresso già ottenuto e consolidato. C.K. al proposito esemplifica le lamentele quotidiane, quelle sulla lentezza della connessione internet o sul ritardo di un aereo: “Da New York alla California ci vogliono cinque ore, quello stesso viaggio un tempo durava anni!”. E qui sta il cuore del libro di Pinker: non ci rendiamo conto di quanto sia sicuro, stabile, ricco e comodo il nostro mondo e continuiamo a lamentarci per dei motivi spesso irrazionali, sono i “First World problems” codificati molto bene dagli onnipresenti meme online.

La cover di “Enlightenment Now: The Case for Reason, Science, Humanism, and Progress” (Viking).

Uno degli esempi più forti – e più attuali – del saggio di Pinker è quello della condizione femminile. Siamo allarmati e spesso spaventati dalla violenza sulle donne, tanto che rischiamo di dimenticare quanto sono migliorate le cose anche in questo campo. Secondo i sondaggi (e non le denunce, perché le azioni legali non sono sufficientemente affidabili) la violenza contro le donne è in costante e inesorabile diminuzione. Ai tempi della sua infanzia, dice Pinker, le donne non potevano denunciare per stupro i loro partner, così come non potevano ottenere un prestito bancario o una carta di credito a proprio nome. Oggi invece, continua, le donne costituiscono il 47 percento della forza lavoro statunitense e la maggioranza degli studenti in molte discipline accademiche. In Italia i progressi sono stati altrettanto evidenti, basta pensare al fatto che oggi si discute di femminismo e femminicidio sui canali mainstream (pur con grandi margini di miglioramento), ma fino al 1981 erano legali il delitto d’onore e il matrimonio riparatore.

Se non percepiamo il miglioramento è anche per via di idee tipicamente scientifiche: lo scetticismo razionale, per esempio, privilegia lo spirito critico guidato dal dubbio. Essere scettici e dubbiosi è un atteggiamento tipico del pensiero scientifico, perché è funzionale a un costante miglioramento attraverso la messa in discussione del sapere acquisito. Eppure questo stesso modo di pensare porta a un paradosso: mentre i totalitarismi e i radicalismi religiosi impongono un’onnipresente comunicazione positiva su se stessi, lo Stato democratico e liberale vive nel dubbio perenne sulla propria organizzazione e sulle ragioni su cui si fonda. Così, anche se è palese che la democrazia sia un sistema migliore rispetto al totalitarismo – e nonostante esistano tonnellate di dati su economia, diritti e sicurezza che lo dimostrano – le democrazie liberali emanano un’idea indecisa e dubbiosa su loro stesse.

Questo nostro essere esitanti e incerti è utile, perché è il miglioramento che cerchiamo istintivamente e per voler cambiare è necessario non accontentarsi dello status quo. Un po’ come quando, per giustificare l’acquisto di un nuovo computer, sminuiamo le potenzialità del pc che usiamo quotidianamente. Allo stesso modo non è un caso che Obama sia salito al potere con parole d’ordine come “change”, perché è il costante miglioramento che pretendiamo dal futuro e dalla politica. Ma, scrive Pinker, campagne come quella del “Remain” nel Regno Unito e quella per l’elezione di Hillary Clinton alle politiche statunitensi hanno dimostrato che a volte – per quanto suoni poco affascinante – “progresso” significa staticità e non cambiamento. A voler cambiare con troppa fretta si rischia di retrocedere.

Eccolo il succo del nuovo libro di Steven Pinker, un libro denso di dati e che a colpi di world history e visione d’insieme rilancia il razionalismo di matrice agnostica, riaffermando che l’umanesimo liberale (e il suo amore per il progresso) rimane il miglior modo per leggere e interpretare il presente. La democrazia liberale è la solita formula politica di molti anni fa? Sì, dice Pinker, è vecchia, ma rimane la migliore tra le soluzioni. E per rispondere alla domanda della studentessa sul perché dovremmo voler vivere, beh, dice Pinker: perché non c’è nulla di meglio dell’idea che i buoni, alla fin fine, vincono per davvero.

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