Matteo Renzi parla alla stampa dopo la sconfitta del 4 marzo.

Lo scorso 4 marzo il Partito democratico ha perso, subendo uno dei più deludenti tracolli elettorali che la storia repubblicana ricordi. Eppure, per uno di quei cortocircuiti peculiari della politica, ora la formazione politica guidata – o forse sarebbe meglio dire: traghettata – da Matteo Renzi è diventata l’ago della bilancia nella quanto mai ardua formazione del nuovo governo. Senza i seggi democratici, il Movimento 5 stelle uscito trionfante dalle urne non ha i numeri per governare, e il presidente Mattarella potrebbe essere costretto a concedere il mandato al centrodestra a trazione salviniana. Per questo, secondo i retroscena, il candidato premier pentastellato Luigi Di Maio sta guardando con insistenza a un’intesa programmatica col Pd, mentre Beppe Grillo stesso dice: “Siamo democristiani, un po’ di destra, un po’ di sinistra e un po’ di centro, possiamo adattarci a qualsiasi cosa”.

Sul posizionamento politico dei 5 stelle esiste una letteratura sterminata e in divenire – il reddito di cittadinanza è “di sinistra”? E definire le barche delle Ong “taxi del mare”, come fatto da Di Maio l’estate scorsa? – ma ora il suo corredo genetico conta poco: la palla, a cominciare da quanto si vede in ambito pubblico-mediatico, è passata al Pd. Renzi ha preso la testa del gruppo che rifiuta categoricamente un ruolo da “stampella” dei grillini, mentre una fazione interna coagulata attorno a Michele Emiliano si è detta disponibile a un’intesa di massima coi nemici giurati. A fare da cornice alle cronache politiche di questi giorni è un termine, “responsabilità”, che ritorna in tante dichiarazioni: il deputato Pd Francesco Boccia difende l’ipotesi di un apparentamento coi grillini in nome di “un senso di responsabilità nell’interesse del Paese”, e lo stesso Di Maio sostiene di “sentire la responsabilità di dare un governo all’Italia”; a fargli eco, una pletora di editorialisti e commentatori politici.

Ci sono alcuni buoni motivi per sostenere un accordo Pd-M5s, e “il bene del Paese”, per quanto vacua possa suonare l’espressione, è certamente fra questi. E andrebbe notato anche che un Partito democratico che si appiattisce sul no alle intese – ovvero ricrea il post-elezioni del 2013, ma a parti invertite – perde una seconda volta, perché fa la figura del bambino offeso che tiene solo al suo orgoglio e diventa un clone sbiadito (e perdente) dei grillini che furono. Ma esistono diverse valide ragioni per capire la posizione “renziana”: che effetto avrebbe, per un partito già crollato sotto i colpi del populismo, diventare un alleato dell’avversario che l’ha attaccato a ripetizione, indicato come origine di ogni male, sbeffeggiato per una legislatura intera con retoriche da muro contro muro, e infine sonoramente sconfitto alle urne? E, anche volendo guardare al di là delle sorti di quella formazione politica, siamo sicuri che il mandato popolare uscito dalle urne legittimi un’alleanza Pd-M5s? Chi dice che il Pd ora deve fare opposizione, raccolto attorno all’hashtag #senzadime, quanto meno ha i numeri dalla sua parte.

Ben prima, però, esiste un fattore che squalifica gravemente parte delle critiche di “irresponsabilità” ricevute dai democratici: la loro provenienza. Ieri il giornalista e scrittore Davide Vecchi, inviato del Fatto quotidiano, scriveva con grande eco su Twitter: “Il Pd di Renzi è quel partito che per il bene del Paese fa cadere Letta, si allea con Berlusconi, distrugge stato sociale, articolo 18, scuola, banche ecc. Però non darebbe alcun sostegno a M5S neanche per fare una legge elettorale decente e tornare al voto. Il bene del Paese sì”. Al di là della solidità degli argomenti portati, il punto è proprio quello citato en passant: il Pd nel 2013 si è “alleato con Berlusconi” dopo il discorso con cui Giorgio Napolitano – rieletto in fretta e furia per salvare la faccia alla nuova legislatura – ha rimproverato il parlamento, auspicando, indovinate, la responsabilità delle parti politiche.

Fa specie, dunque, che un nutrito gruppo di persone – oltre a Vecchi, possiamo citare Marco Travaglio e lo storico dell’arte Tomaso Montanari – che per cinque anni ha gridato all’inciucio con Verdini, denunciato a più riprese l’empietà del “patto del Nazareno” e preferito il compromesso al ribasso del Rosatellum piuttosto che piegarsi all’Italicum renziano, oggi sia alla testa di una carovana che chiede “responsabilità” e ha a cuore innanzitutto la governabilità del Paese: di responsabilità, in questo senso, forse nel passato recente il Pd ne ha avuta fin troppa, diventando la forza governativa responsabile – per l’appunto – di alleanze deludenti, di disegni di legge migliorabilissimi o azzoppati, e di un’identità appiattita sugli accordi di rimessa e priva di squilli.

Chi crede sinceramente che il Partito democratico debba prestare i suoi voti al Movimento 5 stelle, magari contenendone o indirizzandone in senso progressista l’azione legislativa, in molti casi dovrebbe innanzitutto chiedersi se esistono larghe intese emergenziali migliori di altre, se stare all’opposizione è una nota di merito solo quando non c’entra Renzi, e se il compromesso al ribasso per garantire la governabilità è una virtù solo a targhe alterne. Certa politica, certo editorialismo e certa stampa, prima di chiedere (anzi, in molti casi esigere) la responsabilità altrui, farebbero meglio a sapere che la propria passa anche attraverso la coerenza delle opinioni.

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