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Anche la nostalgia ha il copyright. Il caso Ready Player One

Una scena di “Ready Player One”.

Non si fa in tempo a smantellare le locandine di The Post, ancora in una dozzina di sale italiane, che già il regista Steven Spielberg torna alla carica come meglio sa fare: alternando a un affresco sociale strabordante di pathos una sperimentazione rischiosissima in multi-strato digitale. Arriva infatti nelle nostre sale, quasi in contemporanea mondiale, Ready Player One: trasposizione sul grande schermo del romanzo omonimo di Ernest Cline, re dei nerd, che rivede la luce in Italia grazie a DeA Planeta Libri ma che fu pubblicato, originariamente, dalla defunta Isbn Edizioni nel lontano 2011.

La vicenda è ambientata negli anni ’40 del Duemila, in una distopica America frammentata, in un quartiere pseudo-popolare fatto di palafitte accatastate definite “stacks”, monitor pubblicitari giganteschi e grattacieli: Blade Runner senza pioggia, insomma. Il passatempo preferito di tutti, ben oltre le chat 2.0, è il gioco di simulazione in realtà virtuale che prende vita su OASIS: una stratificazione di ambienti che mette insieme Minecraft e Dungeon & Dragons, Lara Croft e Harley Quinn, l’orologio di Ritorno al futuro e la bambola assassina Chucky. Attraverso un visore – meno fantascientifico di quanto si creda – anche il protagonista Wade (interpretato da Tye Sheridan, il neo-Ciclope dei prossimi X-Men) riesce a fuggire dalla routine casalinga (e, soprattutto, dal patrigno) per far scontrare il suo avatar con gli altri impasti di cultura popolare, guadagnare monete, ottenere vite extra, sperimentare armi e macchine da corsa. Nel bivacco della second life, però, il creatore-divinità del (video)gioco James Halliday lancia una sfida: risolvere dei piccoli ma complicatissimi rebus per ottenere tre chiavi che renderanno il vincitore l’unico proprietario dell’universo virtuale. Tra lanciafiamme e motociclette, lo scontro è in realtà tutto cerebrale: bisogna saper decrittare, e sfruttare, il cubo di Zemeckis e la Rosabella di Quarto potere, Duke Nukem e Freddy Kruger, i picchiaduri a scorrimento Battletoads e Street fighter, Mortal Kombat, Akira, King Kong. E sotto, ovviamente, Blue Monday dei New Order. Un pastiche di dimensioni kolossal subito ridimensionato dalla Marvel, che in questi giorni annuncia: Captain America: Infinity War sarà l’evento crossmediale più importante della storia. Ma l’essere umano medio – e ce l’hanno dimostrato le elezioni un po’ di tutti i Paesi occidentali – ha la memoria labile, e non ricorda che fu crossmediale e altrettanto epica la compresenza di Bugs Bunny e Topolino in Chi ha incastrato Roger Rabbit (e sempre di Spielberg stiamo parlando), oppure, più recentemente, Sonic e Pac-Man e il Bowser di Super Mario nel geniale e sottovalutato Ralph Spaccatutto.

Una scena di “Ready Player One”.

All’annosa domanda di Raf quindi rispondiamo: ecco cosa è restato di quegli anni ’80, una nostalgia citazionista che ha messo in piedi un vero e proprio genere filmico. Stranger Things in primis ha trovato tutti d’accordo (un po’ meno gli assegnatari dei premi) mescolando su carta I Goonies a E.T. e lo stesso Spielberg ne tesse le lodi (“i fratelli Duffer e Shawn Levy non hanno rubato la formula: sono semplicemente riusciti a decifrarla”); subito dopo IT è partito da Stephen King per citare lo stesso Stranger Things; ma la cosa più simile al citazionismo selettivo di Ready Player One è stato, nel 2016, un film che andava ben lontano dal binario Eighties e si spostava sugli anni ’50 statunitensi: Ave, Cesare! dei fratelli Coen risultava incomprensibile a chi non masticasse almeno i primi accenni di storia del cinema americano classico.

Allo stesso modo, verso la fine della nuova pellicola di Spielberg, il manipolo di protagonisti si ritrova scaraventato nell’Overlook Hotel di Shining: un membro del gruppo, Aech, non ha mai visto il film, e quindi reagisce alle due gemelle e alla foto di gruppo e al rovescio di sangue con sconcertante sorpresa. Lo spettatore medio, in sala, sghignazza: ma solo lo spettatore medio che ha visto almeno una volta il film di Kubrick (o è incappato in un certo quantitativo di meme e screenshot sulla home di Facebook). Il genere citazionista selettivo infatti taglia fuori dal comedy, come succede ad Aech, tutti coloro che le citazioni non le colgono: per i quali il film risulta non incomprensibile, ma semplicemente non comedy.

Una scena di “Ready Player One”.

E pensare che la sequenza di Shining è stata infilata di forza in uno script che prevedeva invece un dialogo ripetuto, parola per parola, da Monty Python e il Sacro Graal. Se in questo caso si tratta di una scelta degli sceneggiatori – che hanno preferito spostare l’attenzione su un film molto più iconico, i cui set sono stati ricostruiti minuziosamente – per il Gigante di Ferro si è invece trattato di un vero e proprio impedimento di diritti d’autore. Il libro Ready Player One, infatti, prevedeva che il protagonista, nello scontro con Mechagodzilla, utilizzasse l’Ultraman della serie televisiva omonima di metà anni ’60; e non solo: lo sceneggiatore Zak Penn, coadiuvato da Cline, sognava di poter mettere sullo schermo il drago de Il trono di spade – ben successivo agli anni ’80 ma comunque capitale ai nerd. Il problema del copyright non è evidentemente sorto con i dinosauri di Jurassic Park, la DeLorean e i Gremlins, i cui diritti sono tutti della Amblin Entertainment, fondata nel 1981 da Spielberg stesso. Forse è anche per questo che tra i tanti nomi che erano stati fatti (Christopher Nolan, Robert Zemeckis, Peter Jackson), dopo l’acquisizione del libro da parte della Warner Bros., la scelta sia ricaduta proprio sul regista di Cincinnati: metà del citazionismo di Ready Player One riconduce a lui, che gli anni ’80 li ha fatti: e che, con estrema modestia, ha tagliato via gran parte dei riferimenti ai suoi film. Ma ben più di lui, in questa operazione, ha contato una donna che compare di sfuggita fra i titoli di coda sotto al ruolo di “miscellaneous crew”: Deidre Backs, già nel Ponte delle spie, responsabile delle certificazioni necessarie a liberare tutte le licenze: nome che si percepisce appena in mezzo ai tanti tecnici degli effetti digitali.

Un budget di 175 milioni di dollari per un progetto che arriva nella carriera da produttore di Spielberg tra due nuove pellicole su Tintin, una serie basata sul videogioco Halo, l’annunciato terzo capitolo de I Gremlins, due ipotetici Jurassic World e un nuovo Indiana Jones con Harrison Ford. The Post, girato in una manciata di settimane e in tutta fretta, di milioni a disposizione ne aveva 125 in meno: un caso simile al ’93, quando arrivarono contemporaneamente in sala Schindler’s list e Jurassic Park: il primo costato 22 milioni, il secondo 66 (e Spielberg racconta adesso di aver odiato i dinosauri perché lo distraevano dai campi di concentramento in cui aveva calato totalmente se stesso e la sua troupe). L’anno successivo, nel 1994, dominò la 66esima cerimonia di premiazione degli Academy Awards: tre statuette al parco dei dinosauri, sette a Schindler: il primo Oscar per la Migliore regia, alla quarta nomination, e il primo premio al Miglior film da lui prodotto. Un’altra timida statuetta sarebbe arrivata, qualche anno dopo, per Salvate il soldato Ryan: e poi niente più, fino ai giorni nostri, in cui a prevalere continuano ad essere gli affreschi storici dell’America più recente (Lincoln, War Horse): ma la nostalgia fatica a venire davanti al proclama di emancipazione – peraltro quanto mai attuale; la Storia, ci ha dimostrato, l’hanno scritta i Goonies.

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