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Il Vaticano vuole diventare la nuova Silicon Valley?

Papa Francesco a Washington, DC. nel 2015.

Lo scorso 8 marzo il Vaticano ha ospitato un evento senza precedenti nella sua storia millenaria: una hackathon. VHacks, una manifestazione di tre giorni tenutasi nello Stato sovrano più piccolo del mondo, ha riunito 120 studenti di 60 università mondiali, divisi da fedi religiose differenti ma uniti da un obiettivo comune: “Usare l’innovazione tecnologica per vincere le barriere sociali e abbracciare valori comuni”, come si legge sul sito dell’iniziativa. I temi attorno a cui orbitava l’evento erano quelli cari all’attuale Pontefice: la crisi internazionale dei migranti, l’inclusione delle fasce più deboli della popolazione mondiale e il dialogo interreligioso. Dal podio dell’evento Michael Czerny, che guida la sezione del neonato Dicastero pontificio per il Servizio dello sviluppo umano integrale – che si occupa essenzialmente di profughi e migranti – ha dichiarato: “I possessori o regolatori della tecnologia di norma non farebbero attenzione alla Chiesa: grazie a Papa Francesco, ora l’hanno notata”.

Che VHacks non sia un caso isolato, o una semplice trovata estemporanea? In fondo Papa Francesco stesso, nella sua enciclica Laudato Si, sottolineava l’importanza delle nuove tecnologie e la loro capacità di plasmare il mondo. E, nonostante alcune prese di posizione critiche, la curia romana non fa mistero di avere un occhio attento a ciò che succede in Silicon Valley. Per usare le parole di Czerny: “La prima hackathon vaticana è stata una grande opportunità per allargare il terreno comune su cui la Chiesa e l’alta tecnologia possono incontrarsi, non soltanto per collaborare ma anche per essere vicendevolmente onesti – e, se necessario, critici”. Intervistato dall’Atlantic, il docente specializzato in etica tecnologica all’Università di Santa Clara Brian Green ha detto:

In linea generale, l’attitudine della Chiesa verso la tecnologia è stata molto positiva in passato. Ma quando quest’ultima è diventata troppo potente, la prima ha sentito il bisogno di dire no ad alcune cose. Ogni gruppo che non riesce ad assorbire la tecnologia, oggi, è nei guai: se la Chiesa non riesce a occuparsene in maniera produttiva, rimarrà indietro. Per questo motivo, ha bisogno di riesumare la sua tradizione di ottimismo tecnologico.

In nomine patris.

I segnali per considerare seriamente il nuovo corso “tecnofilo” della Santa Sede ci sono tutti: ricordiamoci che l’attuale Pontefice è stato il primo a ospitare ufficialmente Eric Schmidt di Google in Vaticano all’inizio del 2016, per poi replicare con Mark Zuckerberg di Facebook appena pochi mesi dopo. E si è attorniato di collaboratori “tech-oriented”: il dominicano Padre Salobir ha fondato il think-tank Optic (acronimo di Order for Preachers for Technology, Information and Communication), è considerato molto vicino a Bergoglio e di recente ha speso pubblicamente parole positive per l’innovazione.

Alla fine della tre giorni di VHacks, una giuria di esperti composta anche da rappresentanti di Google e Microsoft ha assegnato premi da 2000 dollari, e ora Optic vuole lavorare con gli sponsor perché i vincitori possano essere supportati nei loro progetti di startup. Se pensate che un mondo tendente al profitto abbia poco da spartire con un’organizzazione religiosa storicamente orientata alla salvezza dell’anima, ricredetevi, perché le affinità elettive sembrano abbondare: un paio di mesi fa si è concluso il Laudato Si Challenge, il primo programma di accelerazione per imprese a impatto sociale ispirato all’enciclica di Francesco. Le startup che hanno ottenuto i premi dell’iniziativa – per un totale di 900 mila euro – hanno presentato le loro idee direttamente in Vaticano, sotto lo sguardo vigile di messi pontifici mai così à la page.

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