La raffineria di Yanlian nella provincia dello Shaanxi, in Cina.

Quanto c’è di casuale nella contestualità tra l’inasprimento della retorica commerciale Stati Uniti-Cina e il lancio (il 26 marzo) delle negoziazioni sul contratto future denominato in yuan cinesi negoziato sullo Shanghai Futures Exchange?

La fame di materie prime è già da un quarto di secolo il tratto distintivo della Cina. Da un punto di vista simbolico tuttavia, l’apertura sin dai primi anni ’90 del secolo scorso (lo Shanghai Metal Exchange risale al 1992) di nuovi mercati sulle materie prime ha rappresentato l’avvio di un processo inarrestabile. Un processo cui ha contribuito in maniera determinante la poderosa piramide demografica cinese e una singolare commistione tra pianificazione centrale del sistema economico e “capitalismo”.

Il quadro si arricchisce ora di un elemento centrale nel mercato globale dell’energia. L’ambizione infatti è alta: consentire al sistema economico con il più alto fabbisogno netto di prodotti petroliferi al mondo di “avvicinare” a sé i meccanismi di approvvigionamento e fissazione del prezzo dei combustibili.

Con uno sbilancio di circa 9 milioni di barili al giorno, la Cina si troverà a fronteggiare un deficit di prodotti petroliferi a fronte invece di un progressivo assottigliamento del medesimo deficit da parte degli Stati Uniti. Questi ultimi infatti pur mantenendo la corona di maggiori consumatori di petrolio (e derivati), a fronte della rivoluzione del cosiddetto shale oil hanno massicciamente ridotto il loro fabbisogno di importazione di petrolio (sia greggio che raffinato) e stanno rapidamente subentrando nel mercato delle esportazioni globali non solo di prodotti raffinati, ma anche del petrolio greggio stesso.

La differenza tra la produzione e il consumo di petrolio e suoi derivati individua pertanto un macro-fattore secolare e necessita quindi di un più forte presidio di prossimità tra “domanda” ed “offerta”. Per questa ragione l’approdo sul mercato è più un progetto pluriennale operato dagli attori cinesi di quanto non sia una risposta alle più recenti abrasività del linguaggio di politica commerciale dell’amministrazione Trump. Tuttavia, a fronte delle dinamiche in gioco (di cui quella energetica è solo una tra le tante), non sbaglieremmo nell’inserire questo fattore nel novero delle correnti sotterranee che hanno portato all’escalation del rischio di “guerre commerciali”.

Se ci fermassimo ad osservare il fenomeno da un punto di vista squisitamente finanziario infatti, prenderemmo in considerazione gli aspetti più classici di un contratto derivato: orari di negoziazione; valuta di denominazione; caratteristiche dei margini iniziali e di mantenimento; liquidità/profondità del mercato; numerosità delle scadenze offerte; criteri di ammissione alle negoziazioni delle istituzioni finanziarie e commerciali.

Da questi punti di vista, il nuovo contratto future racchiude in sé i tratti tipici di uno strumento dedicato ad una utenza prevalente “locale”. Orari di negoziazione simili a quelli dei mercati cinesi inframezzati da pause durante la giornata; valuta di denominazione in yuan; onerosità nei margini e nei sistemi di marking-to-market più elevata rispetto ai più popolari contratti derivati sul Brent e sul WTI negoziati rispettivamente sull’Intercontinental Exchange (ICE) e sul New York Mercantile Exchange (NYMEX); liquidità/profondità del mercato ancora basse accompagnate da bassa numerosità di scadenze offerte (prime 12 mensilità consecutive a partire da settembre 2018 seguite da 8 trimestri consecutivi). Inoltre, sebbene guarniti di un marketing accattivante, i criteri di ammissione alla loro negoziazione risultano complessi.

Risulta però probabilmente più interessante scandagliare un ulteriore livello di analisi. Oltre a essere un contratto derivato infatti, il nuovo bechmark cinese definisce in maniera molto precisa  – cosa che peraltro accade con qualunque altro contratto derivato scritto su prodotti fisici – quali siano i tipi di petrolio che si vedrà assegnato (ovvero dovrà consegnare) chi a scadenza avrà mantenuto aperta la posizione di acquisto/vendita del contratto.

Come prassi vuole infatti, i contratti derivati futures su materie prime prevedono la consegna fisica del sottostante. E se è vero che una larga fetta delle operazioni di acquisto di petrolio continuerà ad avvenire sul mercato “a pronti” secondo le pratiche commerciali dell’industria, seguendo la logica proposta non deve stupire che le caratteristiche “fisiche” del contratto future negoziato sul mercato di Shanghai siano di fatto state disegnate per soddisfare da un lato le esigenze specifiche del settore del downstream cinese e dall’altro quelle di alcuni precisi fornitori del tipo di petrolio che risulta compatibile con le esigenze del sistema di raffinazione cinese.

Il sistema delle aziende che operano nel sistema della raffinazione in Cina infatti (circa 15 milioni di barili/giorno) si può distinguere in prima approssimazione in due macro-categorie. Da un lato troviamo i colossi di promanazione statale (delle tre NOCsNational Oil Companies –  sono China Petroleum and Chemical Corporation (Sinopec) e CNPC/PetroChina a rivestire un ruolo di prim’ordine nel sistema di raffinazione cinese, ad oggi secondo soltanto a quello statunitense a livello-Paese); dall’altro per grosso modo il 20% del totale della capacità di raffinazione cinese troviamo gli operatori indipendenti, meglio noti come tea-pot refineries.

Sebbene siano stati fatti molti sforzi nel recente passato per ampliare e rendere più flessibile la capacità di elaborazione e trasformazione del feedstock (ossia della materia-prima petrolio), il grosso della capacità di raffinazione delle NOCs risulta oggi connotato da petroli da livelli di contenuto di zolfo medio-alti (cosiddetto medium-sour) e da un livello altrettanto medio-alto di acidità.

Per quanto questa notazione possa apparire eccessivamente tecnica, essa va invece ad individuare un fattore critico nell’attuale mercato globale del petrolio: l’ingresso degli Stati Uniti nel mercato delle esportazioni globali di petrolio greggio ed il progressivo diradamento dei flussi OPEC a seguito dell’accordo volontario di auto-limitazione delle esportazioni del novembre 2016 ha innescato un processo di graduale “addolcimento” dei petroli presenti a livello di mercato globale, rendendo un po’ meno disponibili quelli a medio/medio-alto contenuto di zolfo (OPEC, Russia) ed un po’ più abbondanti quelli a basso/medio-basso contenuto di zolfo stesso, per effetto proprio dell’aumento di offerta di petrolio shale statunitense (connotato appunto da bassi livelli di zolfo).

Se è quindi vero che è da lontano che parte il processo di avvicinamento “formale” tra domanda ed offerta di petrolio nel bacino del lontano oriente, è altrettanto vero che i più recenti trend di offerta a livello globale siano stati alterati non solo in termini di quantità, ma anche di qualità.

Ed è proprio qui che risiede quella che al momento è la novità più importante ma meno percepita dai commentatori mainstream: l’innovazione apparentemente solo finanziaria del contratto derivato in yuan cinesi sul greggio individua la precisa lista di quali siano le tipologie di petrolio consegnabili per il regolamento fisico delle posizioni su di esso aperte. Vi troviamo il Dubai e l’ Upper Zakum  (Emirati Arabi); l’Oman (sultanato Oman); il Qatar Marine (Qatar); il Masila (Yemen); il Bashra Light (Iraq); lo Shengli  (Cina). Non troviamo né petrolio saudita, né petrolio russo, men che meno petrolio statunitense.

Voler trovare implicazioni geopolitiche nelle specifiche tecniche di un contratto derivato è forse troppo. Ma a questo punto del ciclo economico ed in relazione alle traiettorie attese di fabbisogni e produzioni energetiche planetarie, saranno i dettagli a fare la differenza.

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