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Tutte le bufale sul presidente

Giovanni Leone con Giulio Andreotti.

Antelope Cobbler è un nome in codice. Sembra uscito da una storia di spionaggio degli anni ’70, e infatti è così. Quando nel 1976 esplode in Italia il caso Lockheed, scoprendo un giro di corruzione del colosso militare americano che coinvolgeva politici, funzionari militari e affaristi, Antelope Cobbler era il nome con cui era indicato il principale referente italiano dell’operazione. La Lockheed consegnò alla commissione d’inchiesta il cifrario per la decrittazione dei messaggi in codice e si scoprì che Antelope Cobbler significava “Primo ministro – Italia”. Secondo la ricostruzione, gli aerei Hercules dell’azienda americana erano stati venduti tra il 1968 e il 1970, e presidenti del consiglio italiani in quel periodo erano stati tre democristiani: Aldo Moro, Giovanni Leone, Mariano Rumor.

Fu una tangentopoli anni ‘70 che portò al primo e unico processo celebrato davanti alla Corte costituzionale contro due ministri della Repubblica (Luigi Gui e Mario Tanassi) e travolse il presidente Giovanni Leone, che il 15 giugno 1978, al culmine di una violenta campagna politica e di stampa, firmò le sue dimissioni. Leone era completamente estraneo a quella vicenda, ma rileggere oggi quella campagna politica e di stampa significa guardare alla genesi della “società giudiziaria“: come si è formato e affermato quell’intreccio mediatico-giudiziario in grado di annientare persone e carriere, poi stabilmente presente nell’album di famiglia nazionale dei decenni a venire?

I sospetti caddero su Leone perché aveva rapporti con alcuni dei personaggi implicati, e per alcuni quel nome in codice era un chiaro riferimento al presidente. Accuse infondate.

Giovanni Leone, a sinistra, saluta il vincitore del Premio Galilei 1976, lo storico dell’arte Bernard Degenhart.

Quella nei confronti del presidente Leone fu una campagna di stampa violentissima: le accuse nei suoi confronti caddero quasi subito, ma giornali e televisioni continuarono ad attaccarlo, tenendo il Quirinale al centro dello scandalo e presentandolo come un centro del malaffare. Per dare un’idea del clima è sufficiente ricordare il ragionamento con cui lo si identificava con Antelope Cobbler: il “calzolaio gazzella”, “ciabattino dell’antilope” (queste furono le traduzioni) era Leone, perché durante un viaggio a New York si era soffermato davanti a una vetrina per delle scarpe di antilope; per una seconda teoria, invece, “cobbler” era una trascrizione sbagliata: lo pseudonimo era “antilope gobbler”, il divoratore di antilopi – gobbler significa anche “tacchino”, ma pare che nessuno lo abbia fatto presente.

A distanza di quarant’anni, il fatto che una tesi così ridicola potesse avere il minimo credito ci dice molto di quella campagna denigratoria: perché nessuno si oppose a quelle accuse così fragili? Come mai un Paese intero accettò una tesi rivelatasi così inconsistente, condannando un uomo politico al fallimento e mettendo alla prova la tenuta delle istituzioni in un anno drammatico come il 1978?

L’attacco a Leone fu un processo celebrato sui media e nelle piazze, a cui si sottrassero in pochi. Leone era fuori da ogni corrente della Democrazia cristiana ed era stato eletto con i voti decisivi del Movimento sociale italiano, fatto che contribuì a identificarlo come un presidente di destra. In questo clima viene pubblicato il libro Giovanni Leone, La carriera di un presidente, di Camilla Cederna. Il libro esce nel marzo 1978, vende oltre 600mila copie, un successo editoriale clamoroso che diventa il principale atto d’accusa nei confronti del presidente della Repubblica.

Riprendere in mano questo libro quarant’anni dopo la sua pubblicazione fa una certa impressione, perché è il precursore di un genere che è diventato sempre più popolare: Leone era innocente, ma si è trovato a soccombere davanti a una campagna politica e di stampa che lo ha condannato, nonostante il suo proscioglimento da ogni accusa. Allora, come oggi, una campagna costante di titoli a nove colonne era evidentemente sufficiente per costruire la plausibilità di un’accusa nell’opinione pubblica.

La copertina di “Giovanni Leone. La carriera di un presidente”.

Giovanni Leone è stato la prima vittima eccellente del cortocircuito mediatico-giudiziario che ha attraversato gli ultimi decenni di storia italiana, e nell’attacco contro di lui ritroviamo tutte le venature del giustizialismo contemporaneo: la ricerca di un capro espiatorio, la condanna morale e una certa crudeltà indifferente quando giustizia, media e politica si muovono insieme. La campagna contro Leone fu una vera e propria character assassination, in cui ragioni politiche e interessi contrapposti trovarono un capro espiatorio per attaccare un sistema di potere. Niente di diverso da quello che accade ai giorni nostri, in un momento in cui il giustizialismo è uno dei propellenti del populismo in politica.

La carriera di un presidente è un pamphlet quasi fastidioso: riduce Giovanni Leone a una macchietta, e il suo essere napoletano e la sua umanità – le foto con le corna, la sua passione per la musica popolare, la disinvoltura con il protocollo – si trasformano in un capo d’imputazione. Leone fu un grande giurista, eletto a 36 anni all’assemblea costituente, tre volte alla Camera, nove volte al Senato, fu presidente della Camera e due volte presidente del Consiglio; nel 1967 fu nominato da Saragat senatore a vita per meriti in campo sociale e scientifico. Nel libro della Cederna ci sono attacchi pesanti alla famiglia presidenziale, sullo sfondo di un intreccio tra politica e affari in cui Leone doveva essere coinvolto, ma sono allusioni che non superano mai la soglia del sospetto, e che tentano di coinvolgere Leone nello scandalo Lockheed. Le accuse nei confronti di Leone e della sua famiglia si rivelarono infondate, e Camilla Cederna fu condannata per diffamazione.

Una vena di anti-politica molto contemporanea percorre l’intero libro ed evidentemente ha radici lontane: Leone diventa il simbolo di un sistema politico corrotto e immorale che va abbattuto, mentre nel contempo non mancano nemmeno i germi di un populismo precoce, con alcuni paragrafi sui costi sostenuti dal suo Quirinale. Le accuse contro Leone caddero, ma la campagna mediatica proseguì e la pressione politica culminò con il Partito comunista che ne chiese le dimissioni, e la Democrazia cristiana che non fece niente per difenderlo.

Ci sono voluti vent’anni per ristabilire la verità e perché fosse riconosciuto il processo sommario di cui era stato vittima. Nel 1998, per le celebrazioni del suo novantesimo compleanno, arrivarono anche le scuse di Marco Pannella ed Emma Bonino, che avevano partecipato alla campagna per le sue dimissioni. Dopo quarant’anni è legittimo indagare le ragioni che mossero quella campagna diffamatoria, e a quali interessi rispondeva, ma soprattutto ricordare che Giovanni Leone fu la prima vittima di un giustizialismo sommario, forse all’epoca l’eccezione, ma che oggi è diventato regola.

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