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Sarà l’Europa a regolare i conti con Facebook?

Mark Zuckerberg alla Techcrunch Conference.

Le istituzioni americane saranno anche più solide, in questo momento, di quelle europee – in preda, quest’ultime, a crisi di legittimità e nazionalismo crescenti – ma non sembrano molto attrezzate a capire come va il mondo. La settimana scorsa, Facebook ha superato a pieni voti la prova del Congresso, grazie soprattutto a legislatori che, nel del ruolo di indagatori, sono apparsi del tutto inadeguati al compito che si prefiggevano con l’interrogazione di Mark Zuckerberg. E così il colosso di Menlo Park sta concentrando le sue attenzioni su un pericolo ben più temibile: l’Unione Europea.

Bruxelles è stata chiara: Zuckerberg dovrà fare una visita anche al Parlamento del super-Stato continentale, e spiegargli come vanno le cose in materia di privacy e vendita di informazioni personali. In un’intervista rilasciata al quotidiano tedesco Bild, la commissaria europea alla Giustizia, Vera Jourova, ha detto di attendersi “chiarimenti per sapere in che misura gli utenti europei di Facebook sono coinvolti” nello scandalo Cambridge Analytica. Ciò che è avvenuto, ha detto Jourova, è “totalmente inaccettabile”, e “deve essere un segnale d’allarme per tutto il mondo”.

La settimana scorsa, Facebook aveva ammesso che circa 2,7 milioni di persone in Europa potrebbero essere state vittima di una condivisione impropria di dati da parte della società di consulenza politica. Venerdì, sempre Jourova ha dichiarato che Facebook stava “lavorando alla verifica di altre app potenzialmente pericolose”. E ha mandato a chiamare anche il direttore operativo di Facebook, Sheryl Sandberg.

Negli Stati Uniti Zuckerberg ha affrontato ben 55 deputati e 44 senatori delle commissioni riunite di Commercio e Giustizia del Senato, ma già dopo il primo giorno di audizioni Facebook ha registrato in Borsa il balzo giornaliero maggiore dall’aprile 2016 (+4,5%). Gli investitori si sentivano rassicurati: le domande erano incalzanti ma, di fatto, Facebook l’ha spuntata. Qualsiasi parte si tifasse, il debutto del fondatore di Facebook al Congresso degli Stati Uniti è stato un momento imbarazzante per la rappresentazione della cultura tecnologica dei politici. Zuckerberg si è messo a disposizione per evitare una stretta regolatoria a seguito dello scandalo Cambridge Analytica – stretta che comunque non è stata esclusa – ma i legislatori hanno dimostrato di non capire come funziona la piattaforma socialmediale, né la logica o l’economia che vi sono dietro.

Alcune foto profilo di Facebook rese un’installazione artistica da Paolo Cirio e Alessandro Ludovico alla Somerset House.

“Se è gratis, come fate a stare sul mercato?”, ha chiesto Orrin Hatch, 84 anni, repubblicano dallo Utah, uno dei membri delle commissioni riunite di Capitol Hill. “Senatore, abbiamo la pubblicità”, ha risposto Zuck, mentre i suoi avvocati accennavano un sorriso, chiaramente soddisfatti per come stavano andando le cose. Molte delle altre domande erano su questa linea: “Twitter fa le stesse cose che fate voi?”, ha chiesto Lindsey Graham, repubblicana del South Carolina. “Noi tutti sappiamo” che l’utenza di Facebook – 2,2 miliardi – “è superiore alla popolazione di quasi tutti i Paesi”, ha notato una senatrice. (Quasi tutti? In realtà, l’India e la Cina non superano i 1,4 miliardi). Facebook è un monopolio? “Non che io sappia, senatore.”

In Europa si respira un’aria diversa. Il 25 maggio scatterà in tutti gli Stati dell’Ue il General Data Protection Regulation, e Zuckerberg ha usato parole concilianti per affrontare la faccenda: “Credo che [gli europei] facciano le cose per bene”. E dalle parole è passato ai fatti, annunciando il 19 aprile nuove regole per la privacy che saranno valide per tutti e due miliardi i suoi utenti, ispirate proprio alle norme delle direttive europee. Ogni iscritto dovrà infatti passare in rassegna le opzioni che ha scelto in materia di privacy, dalle informazioni da condividere sul profilo alle modalità con cui Facebook potrà usare quelle stesse informazioni per “targhetizzare” la pubblicità. Tornerà anche un sistema di riconoscimento facciale, basato sulla raccolta di informazioni biometriche, che un tribunale sette anni fa aveva dichiarato illegittimo. I nuovi controlli partiranno dagli utenti europei, per poi espandersi entro la fine di questa settimana a tutti gli altri sparsi nel mondo, segno che è l’Europa il nuovo centro della Facebook-crazia: Zuckerberg ha riconosciuto che “negli Stati Uniti abbiamo sensibilità diverse”, ma alla fine ha scelto il modello culturale del Vecchio Continente.

Il problema è che giganti tecnologici come Google, Facebook e Apple hanno caratteristiche simili alle compagnie delle Indie seicentesche: veri e propri monopoli che riscrivono le regole della società e della politica, si fanno vettori della diplomazia tra superpotenze – nessuno si offenda per la definizione, che qui non c’entra con l’ideologia – alla stregua della United Fruit o della General Motors negli anni ’50, e costringono i legislatori a rimettersi a studiare. Nuovi imperi richiedono nuovi trattati commerciali, e dunque nuove regole. E invece ci ritroviamo con persone del doppio dell’età di questo genio di Harvard che gli chiedono: Facebook è un monopolio?

Se il rischio, per Facebook, di veder sfumare i suoi affari a causa della politica americana è minimo, con l’Europa (dove restrizioni piuttosto aggressive sono già in atto) non si scherza. Margrethe Vestager, la commissaria europea antitrust, ha incarnato nei mesi scorsi il ruolo scomodo della burocrate in lotta contro lo strapotere delle capitalismo 2.0, facendo capire che ci saranno nuove e più pesanti inchieste. È lo stesso antitrust, del resto, che ha appioppato una multa da 13 miliardi di euro per il mancato gettito al fisco irlandese, e quindi all’Europa.

Nel frattempo la Corte europea di giustizia dovrà esprimersi per chiarire se le procedure di invio dati degli utenti europei negli Stati Uniti rispettino le norme sul trattamento delle informazioni. Il caso è nato in seguito alla richiesta dell’Alta corte irlandese, a sua volta sollecitata da un avvocato e attivista per la privacy austriaco, Max Schrems, fondatore del movimento L’Europa contro Facebook, da sempre critico nei confronti dei metodi utilizzati da Facebook per conservare i dati degli utenti nei server americani. Il dubbio dell’Alta corte, e di Schrems, è che il “Privacy Shield” – l’accordo comunitario che consente alle aziende di trasferire in sicurezza i dati europei oltreoceano – sia stato infranto, e che gli Stati Uniti non garantiscano un adeguato livello di protezione. Uno dei legali di Facebook, Paul Gallagher, ha già confermato che il social network seguirà da vicino il caso e che sta valutando un appello.

Mark Zuckerberg all’audizione del Congresso americano.

Se, come sembra, il Privacy Shield dovesse venire meno, Facebook rischia di ritrovarsi in un mare di guai, perché non basterebbe qualche modifica per accontentare i legislatori europei, che da sempre sono piuttosto restii alla negoziazione e al compromesso; il suo modello di business potrebbe essere costretto a sostanziali modifiche. Zuckerberg durante le audizioni non ha mai accennato esplicitamente a un Facebook senza pubblicità: ha però, aperto uno spiraglio su una versione alternativa del social, ovvero una piattaforma a pagamento che permetta agli utenti di disattivare del tutto le ads (e, di conseguenza, la trasmissione di dati a terzi).

Secondo il Washington Post, di mezzo c’è anche un problema di diffidenza diplomatica: i giudici europei avrebbero – forse –potuto avere forse un atteggiamento più comprensivo se alla Casa Bianca ci fosse ancora Obama, ma con l’amministrazione Trump, tutto fa pensare che prevarrà il sospetto. In ogni caso, non è chiaro quanto tempo tempo impiegherà la Corte europea per deliberare.

C’è anche spazio per un’ipotesi più immaginifica: che lo scontro produca un cambiamento radicale nella legislazione americana in materia di privacy, costringendo il Congresso ad adeguarsi ai più stringenti standard europei.  “È probabile” – scrive il Washington Post – che i giudici europei chiedano importanti modifiche alle prassi di sorveglianza degli Stati Uniti, che agenzie come la Nsa saranno estremamente riluttanti a implementare”. Per essere tale, una rivoluzione richiederebbe un cambiamento profondo anche nella cultura politica americana, che ha sempre visto le restrizioni europee alla privacy come un mezzo per contrastare l’espansionismo commerciale degli Stati Uniti.

La disponibilità di Dublino a offrirsi nell’ultimo decennio come paradiso fiscale dei colossi hi-tech, e allo stesso tempo l’azione dell’Alta corte irlandese contro Facebook, sono la prova che la sovranità dei singoli Stati nazionali, in Europa, non è affatto scomparsa. È tutta una questione di preparazione e di volontà. Zuck doveva essere messo sotto torchio per gettare luce su come l’azienda tutela la privacy dei suoi utenti: in realtà, sotto accusa è finita l’arretratezza della politica americana, e lui è emerso dall’interrogatorio piuttosto soddisfatto; Wall Street, poche ore più tardi, gli ha dato ragione. Ma non è detto che sarà sempre così.

Facebook è un’azienda di dimensioni colossali e dalla policy alquanto ermetica – per usare un eufemismo – che non solo i politici ma anche chi lavora nel settore ha difficoltà a capire. Anziché assumere un atteggiamento rozzamente punitivo o goffamente inquisitorio, il ceto politico del Vecchio continente dovrebbe imparare a conoscere il nuovo capitalismo digitale aggiornando la propria classe dirigente e coordinandosi. Incapace di produrre una sintesi coerente sulla gestione dei flussi migratori, dei confini e della politica estera, l’Europa potrebbe ritrovare, magicamente, una nuova identità nel controllo del virtuale. Un modo crudele di far pagare a Facebook anni di complicità con i diffusori di bufale e di propaganda antieuropea: tu ci hai messo in questo guaio, tu ce ne tirerai fuori.

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