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Come Donald Trump è diventato un’icona hip hop

Donald Trump e Kanye West insieme alla Trump Tower.

Tra le diverse “eredità pop” lasciate da Barack Obama, una di quelle che verrà ricordata più a lungo sarà l’apertura della Casa Bianca al mondo del rap. Una apertura fisica, prima ancora che ideologica: nell’aprile del 2016 Obama invita alcuni dei più popolari rapper del momento (da Chance the Rapper a J. Cole, da Ludacris a Nicki Minaj), a parlare della riforma della sistema giudiziario, accusato di essere “costruito per opprimere e umiliare i neri” (le parole sono di Paul Butler, autore di Chokehold: Policing Black Man). Non è la prima volta che i rapper entrano alla Casa Bianca, ma prima di allora l’avevano fatto per esibirsi in situazioni più o meno ufficiali, e mai come interlocutori scelti (dal momento che “tanti di questi artisti hanno trovato il modo di impegnarsi in temi come la riforma del sistema giudiziario e l’empowerment dei giovani svantaggiati nel Paese”, come recitava una nota ufficiale della Casa Bianca). Solo pochi mesi dopo Kendrick Lamar – che aveva da qualche mese composto un album molto politico, How To Pimp a Butterfly – viene invitato a conferire col presidente direttamente nello studio ovale.

È la catarsi di un genere nato per dare voce a una ribellione, per denunciare le condizioni difficili che alcune scelte politiche (ad esempio la Section 8, il programma di edilizia popolare che, di fatto, ha contribuito alla creazione dei ghetti) hanno generato negli anni. Il disagio cantato dal rap è prima di tutto politico, poi sociale ed economico. A 40 anni dalla nascita del rap nei sobborghi newyorkesi, Kendrick Lamar è stato premiato dalla Columbia University con il Premio Pulitzer per la sua musica, il primo musicista non classico a venire insignito del riconoscimento. Un premio, però, che se da una parte nasce come riconoscimento alle straordinarie capacità di Lamar, dall’altra rappresenta una significativa reazione all’attualità socio-politica.

Tutta la vita del rap, d’altronde, è andata a braccetto con la politica. La presidenza Reagan – segnata da un rapporto difficile con la comunità afroamericana (“le ho provate tutte per vincere la simpatia dei neri, ma non ci sono riuscito. Hanno continuato a criticarmi in maniera orribile”, disse una volta l’ex presidente) – ha dato vita alla più potente rivoluzione nella storia del genere. È in questo periodo che nasce il gangsta rap, quando gli N.W.A. – celebre gruppo losangeleno che ha segnato la storia dell’hip hop – compongono Fuck The Police, il singolo che gli vale la censura da tutte le radio del Paese e un noto incontro molto ravvicinato con l’Fbi durante un concerto a Detroit, nel 1989. Se gli otto anni di presidenza Reagan restano tra i più ricchi di produzioni anti-presidenziali (da The Message di Grandmaster Flash a Rebel Without a Pause dei Public Enemy), i successivi quattro di Bush sr. non sono da meno. La guerra del Golfo e soprattutto i riot di Los Angeles del 1992 – quelli succeduti alla morte del giovane nero Rodney King per mano della polizia locale – segnano in maniera permanente il rap, inserendo il nome del presidente nella lista dei cattivi.

Analizzando le tappe del rapporto tra il rap e la Casa Bianca, ci si accorge di un’associazione solo apparentemente controintuitiva: il rap nasce in epoca repubblicana e comincia a espandersi durante un periodo dominato dal partito conservatore americano. Gli otto anni di George W. Bush, quelli della guerra al terrorismo e dell’11 settembre, hanno accertato ulteriormente la discrasia (come scrive Zach Schonfeld su Newsweek, l’anti-Bush music può quasi arrivare a essere definito un genere a se stante. E il rap è ovviamente in testa, come dimostrano testi come quello di A World Gone Mad dei Beastie Boys). Non c’è nulla di sorprendente in tutto ciò: l’attitudine anti-establishment è sempre stata il motore di un genere nato per strada, dagli afroamericani per gli afroamericani (come recitava un celebre brand produttore dei baggie, i pantaloni larghi tipici della cultura hip hop: FUBU, “For Us By Us”) in ghetti disagiati. Così è nato l’archetipo del rapper pusher, vero e proprio nemico della guerra alla droga nata con l’amministrazione Nixon e proseguita nei decenni successivi.

Trump e Ja Rule nel 2003 a New York.

È altrettanto interessante notare che uno dei più grandi incidenti diplomatici della storia del rap è andato in onda durante l’unica presidenza democratica del trentennio in cui il genere è esploso: quella di Bill Clinton. L’accaduto è entrato nel linguaggio corrente con un’espressione, “a Sista Solja moment”, che indica una situazione in cui un candidato politico si distanzia da un’associazione scomoda con elementi che potrebbero fargli perdere i voti della fazione opposta. Cos’è successo, in breve: nel 1992 la rapper e attivista politica Sista Soulja dichiara in una trasmissione televisiva che dal momento che la polizia uccide un nero al giorno, non ci sarebbe nulla di male nel fare fuori un bianco a settimana. Clinton – da sempre accusato di essere troppo tenero nel condannare le violenze degli afroamericani, suo elettorato prediletto – crede di prendere la palla al balzo dichiarando: “Sostituite le parole bianco con nero e otterrete esattamente le dichiarazioni di un suprematista bianco”.

Per tutte queste motivazioni l’arrivo di Obama alla presidenza viene salutato come il momento di apertura definitivo delle istituzioni al genere rap (che nel frattempo continua a crescere, diventando per numeri e influenza anche economica il più popolare al mondo). L’amicizia con Jay-Z e Beyoncé, la coolness innata del presidente, l’amore per sport “neri” come il basket e la sua appartenenza etnica portano la critica e la stampa a definire Obama come il primo “presidente hip hop”. Ma è davvero così? Alcuni – tra cui un pezzo del 2011 apparso su The Atlantic – hanno provato a spiegare perché la “bromance” tra Obama e il rap debba a conti fatti essere ridimensionata, anche perché ”Obama ha parlato meno di povertà e razza di ogni altro presidente democratico”, ha notato Frederick Harris, professore di Scienze politiche alla Columbia University. E se il rap è davvero, come disse una volta Chuck D, “la CNN nera”, allora i rapper può raccontarci quel che vede intorno a lui.

Il punto, però, è che è forse ad essere cambiata è la figura stessa del rapper. Tanto che lo scorso settembre Clarence Page ha scritto sulle pagine del Chicago Tribune che il vero primo “presidente hip hop” della storia americana non è esattamente chi immaginiamo: in realtà si chiama Donald Trump. La spiegazione di Page è abbastanza convincente, cita gli indici di gradimento di Trump ai tempi di The Apprentice tra le minoranze (in particolare quella afroamericana) e il numero di pezzi hip hop che citavano Trump come un esempio positivo, 266 in tutto secondo una ricerca. A citarlo sono stati proprio tutti, compresi rapper dall’attitudine più street, come Method Man del Wu Tang Clan, “business-rapper” come Jay-Z o Sean Combs e persino l’attuale paladino dell’universo afroamericano: Kendrick Lamar.

Nel suo articolo, Page cerca di comprendere il cambio di attitudine dei rapper americani nei confronti del presidente:

Un pezzo del 1999 sul compleanno di P Diddy al ristorante Cipriani di New York, descriveva Trump come il ponte tra gli old white money e i nuovi black hip-hop money, in un momento in cui Diddy stava portando il rap negli Hamptons.

Il cambiamento della figura del rapper all’interno della società a quel punto era compiuto, e lo spazio per la resistenza all’establishment si era assottigliato, se non chiuso del tutto. Ma le chiavi di lettura non sono mai singole, e la realtà è sempre molto più stratificata di quanto si possa pensare. Nel frattempo infatti è in atto la grande rivoluzione afroamericana, avanzata da prodotti culturali di matrice hip hop: serie tv come Atlanta o film come Black Panther, avamposti di un sentimento molto più ampio e che sta coinvolgendo una parte della popolazione sempre maggiore. Si tratta di prodotti “afrocentristi”, riconducibili cioè all’ideologia nata negli anni ’60 che rivendicava una prospettiva Pan-Africana della storia.

Questo fervore è in linea con alcuni dei nuovi artisti rap attenti a una questione razziale rilanciata dai fatti di Ferguson e dall’omicidio di Treyvon Martin, e anche col sottogenere della trap, che pure predica il totale disinteresse politico di un’intera generazione che sostituisce all’ideale dell’uguaglianza quello della ricchezza e della rivincita sociale. I recenti lavori di Kendrick Lamar, come To Pimp A Butterfly o DAMN., hanno avuto quell’enorme eco anche perché restituivano dignità a un movimento che ha vissuto anche della reazione alla candidatura trumpiana.

Il tema è ritornato di pressante attualità in questi giorni, quando Kanye West – appena ritornato su Twitter dopo un lungo periodo di latitanza social – ha cominciato a twittare messaggi ambigui in supporto di Trump. Dapprima ha dichiarato di gradire il modo di pensare di Candace Owens – YouTuber afroamericana e repubblicana molto critica nei confronti del movimento Black Lives Matter – poi ha condiviso video di Scott Adams, fondatore di Dilbert e attivo sostenitore dell’ultradestra americana. Proprio dell’Alt-right, Kanye West sembra essere presto diventato il paladino, finché tutto il clamore non è arrivato alle orecchie del presidente stesso, che non si è lasciato sfuggire l’occasione di ritwittare Kanye e a ringraziarlo per la “rivoluzione culturale” da lui messa in atto. Non era mai successo infatti che un rapper – o quantomeno un rapper così popolare e universalmente apprezzato – esprimesse supporto in maniera tanto plateale a Trump, tanto da arrivare a definirlo una ispirazione, e a postare un selfie con il celebre cappellino “Make America Great Again” autografato. Trattandosi di Kanye – che solo un anno fa era finito in seguito a un “mental break” avuto nel bel mezzo di un tour (tra l’altro, pochi giorni prima del fattaccio aveva ammesso di aver voluto votare per Trump) – la veridicità delle affermazioni è tutt’altro che solida, ma l’evento ha comunque scoperchiato un vaso di Pandora che i primi anni di presidenza Trump parevano aver chiuso per sempre: un rapper deve per forza essere democratico?

A giudicare dall’ultima campagna elettorale parrebbe proprio di sì: la lista di rapper che hanno apertamente appoggiato Hillary Clinton è lunga e va da Jay-Z a Snoop Dogg a 50 Cents, e qualcuno si è schierato con forza dalla parte di Bernie Sanders (parliamo di Killer Mike, metà dei Run The Jewels). Chance The Rapper è figlio di un democratico che ha militato per anni nel gabinetto di Obama, ai tempi in cui Barack era governatore dell’Illinois. Un pattern, dunque, esiste, e le reazioni alle uscite di Kanye (che per ora si sono concretizzate in una massiccia dose di unfollow su Twitter, che pare l’arma politica definitiva) dei suoi colleghi, da Tyler The Creator a Rihanna, sembrano confermarlo. La storia però è tutt’altro che chiusa, e promette di ribaltare un paradigma che si dava ormai per scontato: è singolare che a farlo sia quello che, dati alla mano, è il presidente più divisivo della storia degli Stati Uniti.

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