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Le Stories hanno rovinato Instagram?

Le Instagram Stories hanno debuttato nei primi mesi del 2016.

Non sono ancora passati due anni da quando Instagram, il fiore all’occhiello delle acquisizioni di Facebook, ha introdotto una nuova funzione “alla Snapchat”, com’è stata definita in quei giorni: Instagram Stories, come ormai tutti sanno, permette di pubblicare brevi video e foto contornati da scritte colorate e gif, contenuti evanescenti visibili soltanto per 24 ore. Da allora, la funzione non ha conquistato soltanto influencer, celebrità, brand e professionisti dello storytelling, ma si è affermata anche tra gli insospettabili: a postare regolarmente sono anche l’editor taciturno della casa editrice, la giornalista che si occupa di esteri, persino il mite compagno di classe delle elementari che vive ancora coi genitori (appaiono entrambi nelle sue storie).

Il consenso per le fugaci storie del social network sembra unanime, ma qualcosa non torna: da quando la corsa all’oro delle Stories è diventata un trend di massa – a occhio e croce, da circa un anno – i feed di Instagram sono cambiati: meno post personali, “quotidiani”, più sponsorizzate e foto postate da influencer, marchi e addetti ai lavori della comunicazione. Difficile non vedere la coincidenza, già soltanto temporale: le Stories, dunque, potrebbero essere il cavallo di Troia trionfalmente accolto da Instagram, che rischia di logorarlo dall’interno?

Sulla questione è intervenuta Katie Notopoulos, firma di Buzzfeed, che ha scritto dell’eterogenesi dei fini che è seguita al battesimo delle storie: quando sono apparse per la prima volta, sembravano un punto segnato in favore dell’immediatezza, un cambio di rotta nella direzione dei contenuti meno costruiti e più realistici e verosimili (Notopoulos sottolinea l’importanza del dato citando un discusso studio britannico del 2017 che dava a Instagram il triste primato di social network più deleterio per la salute mentale degli adolescenti, bombardati da corpi perfetti e scene di vita altrettanto eccezionali). Eppure qualcosa è andato storto, e oggi “la pressione legata al produrre un selfie immacolato si è solo tramutata nella pressione per creare una Stories multi-segmento immacolata”.

In buona sostanza, i feed dei nostri Instagram sono diventati città fantasma, dice Buzzfeed, stretti tra la tendenza a postare di meno (e di conseguenza, standard di rilevanza sempre più alti) e la necessità di rapportarsi a un’invasione di contenuti passeggeri in serie: meglio cercare la sequenza narrativamente perfetta o evitare del tutto di postare, limitandosi a un uso passivo delle Stories? Per molti il dilemma non è ancora del tutto risolto, e nel frattempo la piattaforma perde la sua atmosfera di esclusività, da “oasi al di fuori di internet”: le Stories sono ricche, rumorose, confusionarie e spesso del tutto marginali, l’esatto opposto dello statuto fondativo di Instagram, minimalista e chic.

Facebook ha puntato in maniera decisa sulle Stories, introducendole anche nel suo più vetusto core business e poi testando il cross-posting, per dare modo agli utenti di pubblicare le stesse storie su Instagram e WhatsApp (anch’esso di proprietà di Facebook). Lo scorso novembre, Menlo Park aveva annunciato che Instagram Stories aveva raggiunto i 300 milioni di utenti attivi giornalieri, quasi il doppio di quelli di Snapchat e più di metà del dato totale relativo al social network. Commentando il conseguimento, Mark Zuckerberg aveva dichiarato che “le ricerche mostrano che interagire con amici e parenti sui social media tende a essere più significativo e può aumentare il nostro benessere, è tempo speso bene”. Viceversa, notava il ceo di Facebook, “quando consumiamo passivamente i contenuti, questo può non essere vero”: se le Stories non riusciranno a sconfiggere i mostri che loro stesse hanno creato, queste parole tra qualche tempo suoneranno come una profezia nefasta.

 

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