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L’unica colpa di Mattarella è aver fatto il suo dovere

Sergio Mattarella in conferenza stampa.

In una delle serate più difficili della storia repubblicana, ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è uscito dalla stanza del Quirinale dove aveva appena conferito con Giuseppe Conte – il professore di Diritto incaricato di formare un governo su mandato dell’alleanza Lega-M5S – e ha spiegato ciò che a quel punto era già noto ai cronisti: il tentativo di dare il via all’esecutivo si era scontrato col veto del Quirinale sul nome di Paolo Savona, 82enne economista, a ministro dell’Economia in pectore. Il capo dello Stato ha dichiarato in conferenza stampa:

La designazione del ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato, di fiducia o di allarme, per gli operatori economici e finanziari. Ho chiesto, per quel ministero, l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con l’accordo di programma. Un esponente che non sia visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente la fuoruscita dell’Italia dall’euro. Cosa ben diversa da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano.

Mattarella – apparso in vena di toni risoluti, come richiesto dal contesto emergenziale – ha aggiunto che un’eventuale uscita italiana dall’euro (già nota sui giornali e fra gli addetti ai lavori col possibile nome di Italexit) dev’essere oggetto di dibattito in campagna elettorale, “con un serio approfondimento”: indicare Savona, da tempo noto come teorizzatore dell’uscita dell’Italia dall’euro (suo il piano del 2015 per farlo “in segreto”), significa giocoforza posizionare il Paese su una strada che non ha imboccato col voto del 4 marzo, una tornata elettorale da cui quel tema è stato assente; in buona sostanza, prendendo in prestito le parole del commentatore Andrea Vigani, Mattarella ha detto: “Se vuoi uscire dall’euro, ti devi presentare alle elezioni dicendo che vuoi uscire dall’euro”.

Eppure, da ieri il Colle è oggetto di un tiro incrociato di accuse, critiche più e meno pesanti e strali di ogni ordine e grado: il Movimento 5 stelle ne ha addirittura chiesto ufficialmente l’impeachment. Salvini e Di Maio hanno gioco facile, ora, nel dire che Mattarella si è messo di traverso alla “volontà popolare”, costringendo la trattativa a saltare per il suo no a un nome “sgradito ai poteri forti” (“non ci sto a fare un nome che faccia gli interessi tedeschi”, tuonava ieri il leader della Lega in diretta televisiva). La realtà, tuttavia, è un po’ diversa: il presidente della Repubblica nell’esercizio delle sue funzioni è il garante costituzionale dei trattati internazionali (e la nostra è o non è la Costituzione “più bella del mondo”, per citare la definizione cara a tanti pentastellati?), per cui Mattarella non è nella posizione di poter fare finta di niente: il no a Paolo Savona è un esercizio legittimo e ben motivato del suo ruolo istituzionale.

Andrebbe peraltro notato, en passant, che parlare di “volontà popolare” nei termini in cui lo fanno quelli che si sono riscoperti detrattori di Mattarella può essere doppiamente scivoloso: qualcuno pensa davvero che “il popolo” abbia dato mandato a Salvini e Di Maio di governare insieme, o addirittura di farlo se e solo se fossero riusciti a mandare un professore euroscettico all’Economia? La divisione dei poteri è alla base della democrazia rappresentativa, e tra quelli del capo dello Stato rientra l’indicare i nomi costituzionalmente più e meno in linea per i dicasteri chiave.

La novità di questa tornata, semmai, è che la prassi del veto del Quirinale è diventata lo stratagemma politico per andare volontariamente al muro contro muro (e ricavarne, con ogni probabilità, dividendi elettorali). D’altronde l’alternativa all’Economia c’era: Giorgetti, il vice di Salvini. Non a caso lo stesso Di Maio appena cinque giorni fa dichiarava serafico: “Sui ministri nessuna discussione in atto, li sceglie il presidente della Repubblica”, mostrando di conoscere l’iter della democrazia che vuole governare.

Ci troviamo in una fase politica per molti versi nuova, non fosse altro per lo stallo che ha generato: qualcuno si era già affrettato a chiamarla Terza repubblica, ma stando alle evoluzioni delle ultime ore è più probabile che si tratti del solito, trito gioco a rimpiattino pre-politico; quello che conosciamo da decenni; quello in cui la colpa è sempre, rigorosamente di qualcun altro.

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