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Come “Sex and the City” ha raccontato una rivoluzione

Le attrici Kim Cattrall, Sarah Jessica Parker, Cynthia Nixon e Kristin Davis.

Sex and the City non è carino, ma è vero” scriveva il New York Times il 5 giugno 1998, un giorno prima del debutto di una delle più importanti e iconiche serie tv mai realizzate. Il paragone con l’altra favola newyorkese per eccellenza, Colazione da Tiffany, è quasi obbligato dal primo monologo dell’intrepida Carrie Bradshaw subito dopo la sigla: “Benvenuti nell’età dell’anti-innocenza. Nessuno fa colazione da Tiffany e nessuno ha storie da ricordare. Facciamo colazione alle 7 e abbiamo storie che cerchiamo di dimenticare più in fretta possibile”. Anche chi non ha mai visto una puntata di Sex and the City ha perfettamente chiaro l’immaginario lasciato in eredità della serie: donne single e glamour, che fanno la spola tra brunch domenicali e rincorse di taxi con ai piedi le Manolo Blahnik, e che si raccontano le loro strampalate sfighe amorose, il tutto condito con abbondanti scene di sesso più o meno esplicito. Dopo vent’anni, Sex and the City è ancora un prodotto di culto, amato e apprezzato da tutte le generazioni.

Oggi, così ubriacati dai prodotti di Netflix o Amazon Prime che possiamo guardare a ogni ora del giorno e su qualsiasi device, pochissimi telefilm riescono a lasciare un’impronta così radicale nella cultura pop: cosa è rimasto della storica serie firmata Hbo e creata da Darren Star? Sex and the City è arrivato nel momento d’oro del cosiddetto “chick lit”, quel genere letterario rosa che anziché raccontare di principesse in attesa del principe azzurro, si concentrava su single in carriera un po’ nevrotiche che il principe azzurro preferivano andarselo a cercare da sole, di cui la celeberrima capostipite è Bridget Jones. La strada per il successo era spianata. Ma Sex and the City non è soltanto un semplice prodotto di culto come Friends: è stata una vera e propria rivoluzione culturale.

Per chi negli ultimi vent’anni fosse vissuto in una caverna, la serie racconta le disavventure amorose di Carrie Bradshaw – una sex columinst del fittizio quotidiano New York Star – e delle sue tre amiche, Samantha, la più vecchia del gruppo, che è una pr ricchissima che si gode tutto ciò che la vita ha da offrirle, Miranda, un’avvocata tutta concentrata sul lavoro, e Charlotte, una gallerista timida e un po’ timorata di Dio che ancora crede nel matrimonio. Carrie ha una relazione tira e molla con il misterioso Mr. Big, di cui sappiamo poco o niente se non che è ricco (e, possiamo dirlo, stronzo). L’universo della serie ruota poi tutto intorno alla moda, grazie ai look iconici firmati dalla visionaria costumista Patricia Field. Non si esagera se si dice che stilisti come Manolo Blahnik e Jimmy Choo devono ringraziare Hbo per gran parte della loro fortuna. Negli anni, Sex and the City è diventata la bibbia di moltissime fashion victim, nonostante sia più che evidente che lo stile di vita di Carrie & co sia tutt’altro che sostenibile. Detto questo, di serie con bei costumi ce ne sono molte: la moda ha certamente contribuito al successo del telefilm, ma a farlo diventare così significativo c’è ben altro.

Sarah Jessica Parker in un video promozionale per “Sex and the City”.

In un certo senso, Sex and the City è la celebrazione del cambiamento di status sociale ed economico che le donne hanno vissuto negli anni ’90, ma allo stesso tempo ne mostra brillantemente limiti e contraddizioni. La gratificazione consumistica è il leimotiv della vita delle quattro protagoniste e, in particolare di Carrie, ovvero la figura che più fatica a determinare il suo successo economico e lavorativo. Carrie è un disastro nella gestione delle sue finanze, tanto che nella quarta stagione, quando è costretta a comprare il suo appartamento, è l’amica Charlotte a prestarle i soldi necessari. Nonostante ciò, gran parte dello stipendio di Carrie continua a finire in scarpe e borse firmate. Secondo una lettura un po’ radicale, si potrebbe dire che Sex and the City ponga delle domande sulle conseguenze che il capitalismo ha nella vita privata di questo nuovo esercito di donne attraenti, libere e ricche.

Anche la gratificazione sessuale che le quattro protagoniste cercano in continuazione può essere vista in termini puramente consumistici: il sesso è uno scambio economico, che si paga in Cosmopolitan, viaggi a Parigi e costosi regali di Mr. Big. Personaggi come Samantha vivono il sesso in termini quantitativi, termini che puntano all’eccesso. Sex and the City in questo è stato incredibilmente rivoluzionario. Per la prima volta sugli schermi, le donne hanno parlato senza filtri di vibratori, orge e orgasmo femminile, ma anche di sterilità, malattie a trasmissione sessuale e cancro al seno. Non sono tanto i temi ad essere rivoluzionari (qualche mese prima del debutto di Sex and the City sulle tv americane andava in onda More Tales of the City, dove il sesso etero, omo e transessuale faceva da padrone), ma il modo in cui vengono trattati: a parlarne sono quattro donne, quattro amiche e confidenti, che si raccontano tutto senza vergogna mentre sorseggiano cocktail o fanno colazione. Sex and the City ha normalizzato il discorso sul sesso, portandolo in tv con naturalezza.

Per questo motivo molti commentatori si sono chiesti se Sex and the City possa essere definita una serie femminista. Secondo la studiosa Janet McCabe, la serie è riuscita, allo stesso tempo, a ridicolizzare e celebrare l’oggettificazione del corpo bianco, glamour e tonico, quello delle protagoniste. Effettivamente, all’occhio di uno spettatore moderno salta subito la quasi totale assenza di personaggi di colore e la stereotipizzazione in cui sono costretti i pochi personaggi Lgbt della serie, come il fidato amico modaiolo di Carrie, Stan. Pur nella sua dirompente modernità, quello che Sex and the City non è riuscita a fare è separare l’autodeterminazione femminile dal modello “donna bianca e ricca”. Tuttavia, in quest’analisi non bisogna cadere nella trappola temporale: ricordiamoci che la serie è un prodotto degli anni ’90, un decennio che, seppur avanzato, dall’altro è stato culturalmente conservatore. Giudicare la serie con i parametri odierni sarebbe ingiusto e snaturerebbe gli sforzi che i suoi autori hanno fatto. Vent’anni dopo, possiamo ancora apprezzarne e lodarne la brillantezza e celebrarne la piccola rivoluzione dei costumi, nell’attesa che un’altra serie altrettanto straordinaria riesca ad arrivare, oggi, là dove Sex and the City non è riuscito.

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