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I consumatori dell’era Netflix stanno cambiando l’economia

Reed Hastings al Ces di Las Vegas.

Come regolarsi con una società sempre più esigente, distratta e impaziente? Cambiando radicalmente il modello di business, sembra dirci il settore dei media. Le abitudini degli spettatori cambiano repentinamente anno dopo anno, e per le imprese tradizionali è difficile stare al passo. Persino i giganti non si aspettavano mutazioni così veloci, e stanno cercando di metterci mano, prima che sia troppo tardi. Alla base di tutto c’è il meccanismo – che al tempo stesso è psicologico, sociale, economico e culturale – della cosiddetta instant gratification, la gratificazione istantanea. Cosa volete? Prodotti di qualità. Con quante opzioni di scelta? Molte. A quali prezzi? Bassi. Quando li volete? Adesso. Alle ultime tre domande, nessuno risponde meglio di Amazon. Provate a chiedere ai concorrenti, se ne trovate.

Sulla qualità, certo, c’è ancora da lavorare. Il problema, come spiegano diversi studi scientifici anglosassoni, è che spesso si può scegliere solo una delle due componenti del meccanismo: o l’immediatezza, o la soddisfazione. Scelte impulsive non sempre corrispondono a scelte giuste, e volere qualcosa non vuol dire davvero averne bisogno. Eppure il desiderio impaziente sembra il vero motore dell’economia dei nostri giorni, specialmente quella della Silicon Valley, dove buona parte della crescita vertiginosa è dovuta alla capacità delle aziende di soddisfare i bisogni dei consumatori nel minor tempo possibile (consentendo loro di condividere ciò che fanno o pensano, oppure di ordinare un libro o una pizza come e quando gli va).

Il disastro – o l’opportunità – per il settore creativo – è che oggi utenti vogliono pagare (poco) solo per ciò che gli piace, e nient’altro. Sembrerà una banalità, ma al centro dell’economia on demand c’è il capovolgimento di un assioma che ha retto per decenni il mondo della televisione e, in parte, quello del cinema: la vendita dei “pacchetti”. Vale a dire quella pratica che giustificava il prezzo esoso di un servizio con l’inclusione di una serie di prodotti accessori e inutili. La vecchia tradizione di utilizzare i profitti dei blockbuster sicuri per produrre film dall’esito incerto. Oppure – per le sale cinematografiche – tenere occupato il pubblico che non trova posto alle prime di Star Wars con film scadenti di quarta o quinta visione. Per chi è ancora pratico di tv via cavo, parliamo invece della vendita di quelle offerte con centinaia di canali specialistici che nessuno poi si ricorda di guardare.

La nuova tendenza invece va verso un dimagrimento dell’offerta. Per capirci: negli Stati Uniti, l’abbonamento medio per un pacchetto via cavo è di circa 92 dollari. A confronto, un pacchetto di televisione in streaming (Netflix, per intenderci) è di circa 40 dollari. Meno della metà. Gli utenti vogliono guardare le loro serie tv preferite a qualunque ora, e su qualunque dispositivo: sul divano di casa alle otto di sera, come facevano mamma e papà, oppure la domenica mattina a letto, o in un parco. Cercano, in fondo, aziende hi-tech complici nel capriccio, che consentano loro di accedere al prodotto desiderato attraverso un’app disponibile, magari, anche sulla smart tv, oppure sul laptop. Non è finita qui: vogliono che queste app abbiano una buona memoria, e gli ricordino il punto esatto dove hanno lasciato un film o una serie, e che rendano disponibili tutti gli episodi, così da poterli consumare eventualmente in una serata di binge watching.

Siamo distratti a tal punto, dice uno studio di eMarketer, che nel 2017 circa il 70 per cento degli americani ha usato regolarmente un altro dispositivo digitale mentre guardava la televisione: un aumento del 5,1 per cento rispetto all’anno precedente. Ancora, Nielsen riporta che quasi il 60 per cento delle persone fa browsing su internet mentre guarda un video o un film, magari utilizzando semplicemente un’altra tab di Google Chrome o Safari.

Un consumatore distratto non tollera più gli spot pubblicitari, il che è un altro problema per l’industria del settore. Non si tratta di rimpiangere il vecchio Carosello italiano, quando sequele di réclame tenevano incollati per ore i bambini dopo cena, ma di ricordare i tempi in cui i film venivano spezzettati con odiose interruzioni, che però muovevano investimenti e maestranze colossali. Oggi invece – dice Nielsen – il 6 per cento degli spot dura meno di 10 secondi, e il 67 per cento di chi ancora usa la tv tradizionale cambia canale appena parte uno spot. A un importante meeting del settore advertising, tenutosi a New York due settimane fa, la promessa di pressoché ogni rappresentante dei network televisivi è stata categorica: le nostre pubblicità saranno più rilevanti, più “targhettizzate”, più “digitali”.

È una mutazione che ha conseguenze culturali inaspettate. Si avviano verso la soffitta i programmi dal vivo: perché, se ci pensate, che senso ha rischiare incidenti e fuori programma quando la gente è comunque distratta, e può rivedere la trasmissione con più calma quando vuole? Gli unici canali che ancora resistono con il live sono lo sport e le notizie, ma anche lì le compagnie televisive sono sempre più costrette a spartire i profitti con i social media, piattaforma privilegiata per la fruizione di ogni forma di spettacolo. Meno invasioni di campo, gaffes, improvvisazione: è il momento d’oro per la parola scritta: oggi ci sono all’incirca 500 serie tv sceneggiate, a confronto a circa 200 nel 2010, riporta FX. E tuttavia, circa due terzi (62 per cento) dei consumatori sostiene di avere difficoltà a trovare qualcosa da guardare, nonostante la vastità della scelta (secondo PwC).

Addio anche alle care “guide tv”: gli utenti si affidano, volontariamente o meno, ai consigli degli algoritmi. Al posto della rubrica dei critici nelle ultime pagine dei giornali, ci pensa Netflix a segnalarci gli ultimi film aggiunti al suo immenso archivio, e a spiegarci perché dovrebbero interessarci. È attraverso l’analisi dei nostri dati che la compagnia di streaming decide non solo cosa proporre, ma anche quali serie e film mettere in evidenza per noi. L’algoritmo, estrapolando informazioni dalle nostre scelte e dalle nostre reazioni, indirizza i dirigenti verso i lavori da commissionare. Un sistema che per ora pare infallibile: il numero di abbonati a Netflix ha superato quello delle tv tradizionali via cavo negli Stati Uniti; il colosso ha una capitalizzazione in borsa di quasi 12 miliardi di dollari e l’anno scorso, agli Emmy Awards, ha fatto incetta di premi, dimostrando come i servizi online si siano imposti anche come produttori di contenuti di qualità.

Il lato oscuro è che l’algoritmo rischia di prevedere anche troppo i gusti dello spettatore, concentrandosi sulla conferma dei pregiudizi più che sulla (umanissima, e per questo fragilissima) sperimentazione. È una “realtà che conferma le aspettative”, spiega il giornalista Angelo Paura in Datacrazia, dove si studia la pervasività degli algoritmi e del Big Data al tempo del capitalismo “di piattaforma”.

L’economia dell’impazienza sta costringendo a integrare il business planning tradizionale con teorie psicologiche complesse e con una più sofisticata capacità di intercettare i gusti degli utenti. Potremmo, ingenuamente, definirla empatia. Ma c’è un trucco: nel suo desiderare tutto e subito – anche a costo di scegliere prodotti di cui non ha bisogno, anche a costo di partecipare involontariamente a un sistema di sfruttamento e iper-lavoro reciproco (chi tira fino a tarda sera in un ufficio o magazzino di Amazon può essere lo stesso utente che ordina un instant delivery) – e nel cedere all’impazienza, insomma, gli individui lasciano tracce. E sulla base di quelle tracce, macchine infinitamente più potenti e instancabili dell’Uomo stanno costruendo lo scheletro di un consumatore forse più viziato e disordinato, ma che avrà anche meno segreti. È vero: l’homo oeconomicus sa essere costantemente irrazionale. Ma nulla che non si possa misurare o prevedere.

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