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Anthony Bourdain, morte di un entusiasta

Anthony Bourdain aveva 61 anni.

Nessuno poteva indovinarlo. Anthony Bourdain, il padre di tutti gli chef televisivi di successo, è stato trovato morto venerdì mattina in un hotel di Strasburgo. Stava lavorando agli episodi finali del suo show, Parts Unknown, in cui dal 2013 racconta le nazioni partendo da ciò che mangiano. Un collega alla Cnn, Brian Stelter, ha rivelato che Bourdain s’è impiccato, a soli tre giorni di distanza da Kate Spade, la designer trovata morta nello stesso modo nel proprio appartamento di New York. La domanda più istintiva in questi casi è anche la più sciocca: perché? E la risposta non la troveremo curiosando nel suo account Twitter, dove sotto al suo nome, nella bio si continua a leggere enthusiast, appassionato; e a questo punto conta poco scoprire quando abbia smesso d’esserlo.

C’è anche il video pubblicato qualche giorno fa in cui il direttore della fotografia di Parts Unknown, Christopher Doyle (noto per le collaborazioni con Wong Kar-Wai), balla e ride con Asia Argento, con la quale Bourdain ha avuto una relazione. Festeggiano la fine delle riprese del programma girato a Hong Kong: il regista era in ospedale e Bourdain ha chiesto ad Asia di aiutarlo, come racconta in un articolo all’Hollywood Reporter. Bourdain è inquadrato per mezzo secondo, alza il bicchiere di plastica, sorride. Scriverà che quella è stata “la più intensa e soddisfacente esperienza professionale”. Tutto materiale per noi vivi condannati all’insondabile mistero su cosa spinga a uccidersi: l’ultimo video, l’ultima canzone preferita, l’ultima intervista. Frammenti insignificanti che rivelano solo che non ne sappiamo niente della vita degli altri, e che col senno di poi siam tutti bravi a leggere gli sguardi vedendo malinconia e malessere là dove, forse, c’è solo un po’ di alcol e di stanchezza. Quattro giorni fa mangiava una bistecca in Svizzera, e ora su Instagram la commentano con messaggi di addio. Non è postmodernismo: è la vita.

Prima della carriera da divulgatore di cucina fatta di bestseller (Kitchen Confidential, Medium Raw, No Reservation) e di programmi tv (A Cook’s Tour, poi con No Reservations e Parts Unknown), Bourdain ha lavorato anni in ristoranti newyorkesi fino a scalare la gerarchia diventando lo chef della Brasserie Les Halles di Manhattan. Da noi era innanzitutto il fidanzato di Asia Argento, quello che ritwittava le lotte femministe a mezzo cancelletto del movimento #MeToo e Time’s Up. In America era quello che nel 2016 aveva portato Barack Obama a mangiare “bun cha” – gli spaghetti di riso con maiale e verdure, una specialità vietnamita – in un baracchino di Hanoi con le sedie di plastica. Spesa totale: sei dollari. Era il cattivo ragazzo della cucina, lo chef rocker, quello che nell’incipit di un vecchio pezzo per il New Yorker intitolato “Don’t Eat Before Reading This”: scriveva: “Il buon cibo, il mangiar bene, è tutta una questione di sangue e organi, crudeltà e decomposizione”. Non esattamente un manifesto programmatico vegano: anzi per lui peggio di chi fa il brunch ci sono solo i vegetariani (ma era il 1999 e ancora potevano pubblicarlo; oggi, vent’anni dopo, a Google ingegneri ad hoc levano le uova dalle emoticon delle insalate perché l’azienda risulti più inclusiva).

Obama e Bourdain ad Hanoi, Vietnam.

“La gastronomia è la scienza della sofferenza”, scriveva Bourdain cercando di spiegarci la fatica, l’umiliazione, la dedizione totale di chi intraprende una professione sfiancante che oggi è tanto glamour (tutti vogliono fare gli chef, e nessuno vuole essere un cuoco), anche se poi nei fatti si tratta di un lavoro che fanno spesso gli immigrati. Le cucine, secondo lo chef appena scomparso, sono “l’ultimo rifugio dei disadattati”. Eppure era diventato molto più di questo: sempre sul New Yorker, in un pezzo giustamente celebrato dell’anno scorso Patrick Radden Keefe raccontava la “festa mobile” del cuoco diventato uno statista itinerante: sessantenne puntiglioso con lineamenti e standing da imperatore romano, Bourdain passava in rassegna ogni dettaglio dei suoi show, faceva sopralluoghi sulle location, scriveva dialoghi e collaborava strettamente con ogni singola persona del team di produzione. Il suo pitch preceduto al successo dello show recitava, a suo dire: “Viaggio intorno al mondo, mangio un sacco di schifezze, e fondamentalmente faccio il cazzo che mi pare”.

A chi gli chiedeva cosa avrebbe servito a Trump rispondeva (scherzando) che lo avrebbe avvelenato. Lo ricordano i fan, i colleghi, gli amici, e Mia Farrow, con una sua citazione, che a questo punto suonerà un po’ retorica (ma in un coccodrillo si può):

Viaggiare non è sempre piacevole. Non è sempre comodo. A volte fa male, può anche spezzarti il cuore. Ma va bene. Il viaggio ti cambia; dovrebbe farlo. Lascia segni nella tua memoria, nella tua consapevolezza, nel tuo cuore. Porti qualcosa con te. E ci si augura tu lasci dietro di te qualcosa di buono.

“Il mio è il lavoro più bello del mondo”, diceva Anthony Bourdain proprio un anno fa. “Se sono infelice, è per mancanza di immaginazione”.

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