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La verità, vi prego, sulla crisi demografica italiana

La crisi demografica italiana è fortemente esagerata.

Ritrovarsi al culmine di un ciclo di sviluppo, per un Paese come l’Italia non è il massimo: ci si trova addosso tutte le paranoie tipiche dell’adolescenza, mentre ciò che rende privilegiati risulta quasi invisibile. Uno dei complessi più inestirpabili, in questa difficile fase, è quello che riguarda l’invecchiamento della popolazione, e la natalità in picchiata. L’ultimo turbamento in ordine di tempo sono stati i 600 migranti sulla nave Aquarius, al largo delle coste maltesi, che hanno riacceso una serie di teorie complottiste – i presunti piani di sostituzione etnica dei nativi – e altre più umanitarie e però semplicistiche sulla necessità di una demografia giovane che ci aiuti a pagare le pensioni, e rinvigorisca nel contempo un Paese decrepito. A bordo della nave c’erano molte giovani donne, in molti casi gravide, o con bambini che gli dormivano di fianco, che hanno costretto l’opinione a interrogarsi – tra le altre cose – sul proprio futuro e la propria vecchiezza.

La prima cosa da chiarire è che la crisi demografica italiana è largamente esagerata. Se con “crisi” intendiamo un fenomeno non previsto o inusuale, c’è da dire che quello che sta avvenendo nel nostro Paese non ha alcuna caratteristica drammatica. Siamo uno Stato dove si fanno sempre meno figli e si invecchia sempre di più, certo, ma questo avviene in quasi tutti i nostri principali partner europei, indipendentemente dalla loro situazione economica. La nostra bassa natalità (1,37 figli per donna) è il frutto di un processo che va avanti dalla seconda rivoluzione industriale, studiato e anticipato da decenni in tutte le economie avanzate, che infatti hanno tassi di fecondità piuttosto simili ai nostri (circa 1,32 la Spagna e 1,50 la Germania), con qualche eccezione (circa 1,87 gli Stati Uniti e 2,01 la Francia). E la popolazione italiana, nel suo complesso, è in leggero aumento: dal 2008 (inizio della grande recessione) a oggi, siamo passati da circa 60 milioni a 60 milioni e mezzo di persone. È vero che ogni anno emigrano 250mila giovani, ma ne nascono quasi mezzo milione. Perché la sensazione generale è che la situazione sia così negativa, se non direttamente catastrofica?

L’importanza del fattore demografico nell’economia è innegabile. Un Paese troppo vecchio, con una struttura demografica “a fungo” (cioè dove i vecchi sono più dei giovani), mette a rischio la base produttiva: troppo pochi quelli che lavorano, e troppi quelli che avranno bisogno di una pensione pagata. Se diminuisce la popolazione, certe economie di mercato finiscono per risultarne compromesse. Il “miracolo economico” negli anni ’50 e ’60 è avvenuto, essenzialmente, anche grazie all’abbondanza di manodopera giovane, anche se più in termini di energia imprenditoriale che di riduzione del costo del lavoro. Questo tuttavia non sembra preoccupare troppo una nazione che ha votato in larga maggioranza partiti – il Movimento Cinque Stelle e la Lega, ma anche Forza Italia – che in campagna elettorale proponevano di abolire la riforma Fornero e abbassare di nuovo l’età pensionabile, e con una componente culturale rilevante che vuol risolvere il problema del debito pubblico facendo a meno dell’euro.

A fare (relativamente) più figli ci stanno pensando gli immigrati: è questo, il motivo di preoccupazione? Gli extracomunitari già in Italia da anni e i nuovi arrivati sono le fasce sociali che mantengono il Paese popoloso. La bassa fertilità delle italiane doveva essere una priorità piuttosto grande per lo Stato, quando due anni fa il ministero della Salute finanziava una delle campagne di sensibilizzazione peggio riuscite della storia repubblicana: il Fertility Day, benedetto nel 2016 dal ministro Beatrice Lorenzin, aveva tutte le caratteristiche di una Pubblicità Progresso da incubo, mescolando i toni di un governo che metteva bocca nelle scelte private, un atteggiamento paternalistico e di colpevolizzazione nei confronti delle donne (perché il tempo stringe e chi non fa figli poi se ne pente), nonché un invito neanche troppo velato a mettere da parte altre progettualità (perché fare i figli è l’unica cosa che conta, non importano le conseguenze o il contesto). Era, soprattutto, una campagna che mancava di proporre politiche serie a sostegno della natalità.

Una donna a bordo della nave Aquarius.

Giunti a questo punto, va detto: la manfrina sugli Stati plutocratici in perenne ricerca di manodopera a basso costo, trasformata in tormentone da Diego Fusaro e CasaPound, è vera. L’esercito industriale di riserva di cui parlava Marx – la massa dei disoccupati nelle economie capitalistiche – è esistito anche in Italia: erano i figli che sfornavamo fino a quarant’anni fa, abbondantemente oltre i tre per donna per tutto l’Ottocento e la prima metà del Novecento. Si figliava come conigli e si moriva come mosche: per le malattie più banali, per le rivolte, per la guerra. Ma anche perché i figli servivano, tra le altre cose, a trasportare, aggiustare, inchiodare, pulire, piallare, pittare, scavare al posto nostro.

Questo stratagemma usato dall’Occidente per risparmiare sulla forza lavoro è andato avanti a lungo. Per restare in Italia, l’economista Paolo Piergentili descriveva una Napoli del 1973 all’alba dell’epidemia di colera, in cui si aggiravano donne di cinquanta e sessant’anni con alle spalle fino a venti e più gravidanze (di cui la metà interrotte artificialmente, e quasi sempre passando sotto i ferri di qualche macellaio). Mentre David Bowie pubblicava Aladdin Sane e nascevano i primi videogiochi, la mortalità infantile nella terza città d’Italia era del 140 per mille; nel Mali del 2018, tanto per capirci, è del 100 per mille; in Somalia, del 96 per mille. Nel 1968, la giornalista e parlamentare Maria Antonella Macciocchi intervistava napoletane di trent’anni con già dieci figli a carico, tutti a lavoro già in età prescolare, sette giorni su sette. Era certamente un’età dell’oro per la nostra economia, ma incredibilmente spietata per chi aveva meno di diciotto anni, o nasceva nel posto sbagliato.

L’immaginario collettivo oggi vorrebbe tornare ai beati anni ’70, l’epoca in cui pensionati e dipendenti pubblici si sono assestati come le categorie privilegiate del ceto medio. Un altro frutto importante di quel decennio, oltre alle politiche sociali e redistributive, è il mutamento della condizione e della consapevolezza femminile. Perché è proprio in quella decade – che secondo alcuni analisti del benessere rappresenta la vera età del miracolo, con gli indici di povertà diminuiti drasticamente sia in termini assoluti che relativi, e con essi l’indice di Gini – che l’Italia smise di sfornare nidiate di marmocchi. Non è successo solo da noi, ma in tutto il Primo mondo. Nell’epoca della più grande creazione di ricchezza che l’Occidente abbia conosciuto, le donne si sono emancipate, e per la prima volta dopo due secoli hanno impedito che i figli diventassero l’esercito industriale di riserva di cui sopra, trasfondamoli invece (gradualmente) in un costo che consumava sempre più risorse economiche e intangibili, come il tempo, le priorità personali, il carico di lavoro. Paradossalmente, non aveva tutti i torti un reazionario come Camillo Langone quando sul Foglio provocava dicendo che per rendere più prolifiche le italiane un metodo semplice c’è: toglier loro l’istruzione e i diritti. O, in una parola, l’autonomia.

La narrazione prevalente nelle élite sembrerebbe credere davvero che a specifiche politiche a favore dei genitori, pro-fertilità, possano corrispondere fantasmagorici risultati in termini demografici. E invece no: tutti gli studi dimostrano che non ci sono politiche progressiste della fertilità che inducano le donne emancipate a scegliere, liberamente, di fare molti più figli di quanti ne facciano ora. Uno studio empirico del 2010, molto elaborato, condotto su una miriade di Paesi occidentali, riportava come a un aumento del 10 per cento dell’indennità di maternità corrispondesse una diminuzione di appena il 3,2 per cento del numero di donne tra i 36 e i 40 anni senza figli.

La verità è che misurare l’efficacia di una policy del genere è sempre un lavoraccio, perché gli studi sono contraddittori, le ragioni sottostanti le scelte personali sono variegate, e gli esperti possono solo abbozzare uno schema di concause. Ciò non toglie che questi programmi siano importanti per equilibrare il potere contrattuale all’interno delle famiglie, e rendere la vita di chi fa un figlio e al tempo stesso lavora più dignitosa: ma sembrano fare poco per cambiare quelle che sono tendenze epocali, e non certo congiunturali. Come se non bastasse, è interessante notare come anche i periodi di forte recessione e alta disoccupazione – che secondo la vulgata comune hanno contribuito a un non meglio specificato declino dell’occidente – abbiano avuto un impatto piuttosto limitato sul desiderio europeo di riprodursi. Secondo un altro studio, condotto tra il 2008 e il 2011 (vale a dire negli anni più duri della recessione) il tasso di natalità tra i paesi Ue è calato di appena il 2 per cento, salvo poi recuperare i livelli pre-crisi nell’ultimo lustro. E – un po’ ovunque, ma soprattutto in Francia e negli Stati Uniti – il merito è soprattutto degli immigrati.

Purtroppo o per fortuna, per come è strutturata la demografia italiana, se anche avessimo da un giorno all’altro un esplosione di nascite, la distribuzione dell’età della popolazione avrà una forma “a fungo”, con un preponderante numero di anziani in cerca di pensione. Gli erogatori di contributi non si “creano” da un giorno all’altro, ma nell’arco di generazioni. Che fare, dunque? Auspicare l’arrivo di nuova forza lavoro dai Paesi extra-europei, pur sapendo che il nostro le offrirebbe una selezione avversa, con lavori per lo più a bassa produttività, con una struttura economica decisamente inadeguata ad attirarla e gestirla? Non ci sarebbe nulla di male, se non ci trovassimo nel clima politico e sociale più ostile alla presenza straniera degli ultimi decenni.

Occorre ricordare che il numero di lavoratori è solo una delle quattro leve sulle quali si può agire per riequilibrare la spesa previdenziale: le altre sono le tasse, le ore lavorate e la produttività. Se per ringiovanire non vogliamo puntare sugli immigrati che fanno più figli di noi, possiamo forse alzare i contributi di tutti, che sono già alti? Può darsi: ma al momento si sta andando in tutt’altra direzione. O sarà meglio aumentare la quantità di lavoro, lavorando di più e andando in pensione più tardi? Non è da escludere, purché però un governo accetti di scontrarsi frontalmente con i sindacati. E se si volesse invece aumentare la produttività – cioè la capacità contributiva – della fascia attiva della popolazione? Anche in quel caso, però, occorrerebbe un lavoro di concerto per fare quello che in Italia non si riesce a fare da 30 anni: un mix di pressione sindacale sulle aziende per innovare, una ristrutturazione del settore pubblico, e una “cura Ludovico” da parte del governo per la piccola e media impresa che non riesce più a stare sul mercato.

L’economia offre molte più opzioni di quanto raccontano coloro che vorrebbero dipingerla come un culto immutabile: l’importante, per chi governa, è saper anticipare le conseguenze e fare i conti con le diverse componenti del proprio elettorato, e della sua voglia di premiare il rischio. Se i partiti attualmente al governo in Italia, generati da un declino politico lungo tre decenni e da una voglia di rivalsa dei nativi, prenderanno atto che le politiche pro-fertilità hanno quasi sempre fallito (decidendo, nonostante ciò, che l’aumento del Pil tramite un maggiore afflusso di forza lavoro non gli interessa e che la questione pensionistica può essere posposta a data da definirsi) a quel punto, allora, si potranno finalmente mettere da parte tutte le lamentele stereotipate sul Paese che invecchia e non fa figli, e ci si potrà serenamente concentrare sul nostro downscaling in una piccola nazioncina marginale. Uno Stato fatto di iperlavoro e salari bassi, rimpicciolito e raggrinzito come Nonna Ursula Iguaràn in Cent’anni di solitudine.

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