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Perché il razzismo in Italia non ha nulla a che vedere con la crisi economica

Migranti a Lampedusa nel 2013.

Mentre si cercano di ricostruire i fatti che hanno portato alla morte di Hady Zaitourni, ad Aprilia, e al ferimento di Daisy Osakue a Moncalieri, non ci restano che le statistiche per misurare la recrudescenza xenofoba del Paese: reati con matrice d’odio passati da 142 nel 2009 a 803 nel 2016; 1500 casi di violenza razzista dal gennaio 2015 al maggio 2017 (da gennaio 2007 ad aprile 2008 erano stati 319); i 42 mila tweet contro i migranti riportati nel dossier 2016 dell’associazione Vox diventati oltre 73 mila nel dossier 2018. Sono, questi, i numeri riportati anche da Mattia Feltri in un suo corsivo su La Stampa. “L’ipotesi di carabinieri e polizia è quella dell’emulazione, ma senza escludere che dietro alcuni attacchi possa esserci una matrice di odio razziale”, dicono le forze dell’ordine.

I dati di cui sopra sono stati messi in relazione da molti a una coalizione di governo – e, soprattutto, a un ministro dell’Interno – che hanno fatto della caccia al “clandestino” e dall’ossessione securitaria il loro principale cavallo di battaglia. Per il momento, come fa notare la sociologa Francesca Arcostanzo, se guardiamo i dati Osce relativi solo alle aggressioni a sfondo razzista, gli episodi di violenza nei primi due mesi del 2018 sono 28. Lo stesso numero di quelli avvenuti nell’intero 2016.

Se il razzismo attraversa da anni i media italiani – dalle trasmissioni più sensazionaliste che mettono in risalto i crimini commessi dagli stranieri ai giornali che esplicitamente accusano i migranti di portarci miseria e malattie – il recupero delle più rozze stigmatizzazioni (“immigrato = potenziale stupratore”) è facilitato in modo significativo dalle piattaforme socialmediali. “La novità, rispetto al passato, è la delegittimazione operata nei confronti della società civile solidale”, si legge nel report dell’Associazione Lunaria, che lavora come osservatorio sul razzismo in Italia. “Da quella che accoglie i richiedenti asilo nelle nostre città alle Ong che prestano operazioni di soccorso in mare, sino ad arrivare a coloro che offrono solidarietà vicino alle frontiere”.

A leggere commenti di diverso avviso, le reazioni xenofobe della gente sono da attribuire a un’immigrazione selvaggia e ai reati commessi dagli stranieri. In altri casi, si fa riferimento alla perdurante crisi economica in cui è avvolto il Paese da almeno dieci anni, e da un generale senso di frustrazione per le iniquità sociali. È stata l’austerity, capita spesso e volentieri di sentire, ad aver soffiato sul fuoco di un Paese altrimenti poco o per nulla intollerante. E i partiti usciti premiati dalle elezioni del 4 marzo sembrano aver fatto proprio questo sentire comune, riassumibile sostanzialmente con la frase-manifesto: “Gli italiani non ce la fanno più”.

Ma è davvero così? Dopo aver analizzato le statistiche disponibili tramite il Centro di ricerca Pew, un influente think tank statunitense che fornisce informazioni su questioni sociali e opinione pubblica, il data analyst del Sole 24 Ore e di Wired David J. Mancino è giunto a una conclusione diversa: l’Italia è fra i Paesi avanzati quello più razzista e intollerante verso le minoranze, e lo è da diversi decenni. “Già nel 2002”, scrive Mancino su Facebook, in un post diventato virale, “quando di stranieri nel nostro Paese ce n’erano pochissimi, l’Italia era la nazione in cui più persone ritenevano l’immigrazione «un grosso problema»”: oltre il 50 per cento, contro il 46 per cento circa del Regno Unito, il 35 per cento degli Stati Uniti (ancora scossi dall’11 settembre) e il 30 per cento della Germania.

Il resoconto di  Mancino è impietoso. Dal 2002 al 2007, in piena emergenza terrorismo islamista, in molti Paesi europei cominciava a scemare la convinzione che l’immigrazione andasse controllata di più o addirittura ridotta: si passava dall’81 al 75 per cento negli Stati Uniti, dal 79 per cento al 75 per cento in Gran Bretagna, dal 75 per cento al 68 per cento in Francia, dal 66 per cento al 65 per cento in Germania. L’Italia andava in controtendenza: dall’80 per cento di persone convinte della necessità di ulteriori restrizioni si passava all’87 per cento: e non avevamo nemmeno subito attentati, a differenza d’altri.

E se questo atteggiamento fosse dipeso dalla rapidità e dall’estensione dei flussi migratori? Difficile: è vero che tra il 2002 e il 2018, ovvero in 16 anni, gli stranieri residenti sono aumentati del 384 per cento, ovvero mediamente del 24 per cento l’anno. Ma il principale flusso mai registrato in Italia è quello composto dai rumeni dopo il 2007: dopo, cioè, l’ingresso di Bucarest nell’Unione Europea. “Se l’intolleranza fosse legata a quello, dovremmo trovare valori bassi prima e alti dopo. Invece sono elevatissimi sia prima che dopo, né in calo dopo la recessione, periodo in cui i flussi migratori si sono ridotti moltissimo”.

Nei primi anni duemila di stranieri, in Italia, ce n’erano relativamente pochi: eppure già allora il 24 per cento degli italiani rispondeva di sì a chi gli chiedeva se gli immigrati avessero “un’influenza molto negativa nel modo in cui vanno le cose” (era il 2002) contro il 16 per cento dei britannici e il 12 per cento degli americani. In poche parole eravamo meno tolleranti rispetto a nazioni che avevano molti più immigrati. La diffidenza contro le minoranze in Italia ha, innegabilmente, qualcosa di specifico. Basta metterci del resto a confronto con la Spagna: Paese con caratteristiche simili al nostro, che ha avuto un’immigrazione ancora più impattante negli ultimi vent’anni. Ma i dati rivelano che lì, dei livelli di xenofobia registrati in Italia, non c’è traccia.

Dal 2009 al 2015, i nostri connazionali che dichiaravano un’opinione molto negativa dei rom erano, in media, oltre il 50 per cento. Nello stesso periodo, in Germania, Francia  e Spagna non superavano il 25 per cento. Gli italiani sono tuttora coloro che dichiarano più spesso di avere un’opinione molto negativa anche di ebrei e musulmani, nonostante ne vivano molti meno che in ciascuna delle altre nazioni citate. Nel 2016 l’affermazione “essere nati in Italia è molto importante per essere davvero italiani” veniva sottoscritta dagli intervistati del nostro Paese, più che dagli abitati delle altre nazioni con riferimento al loro Stato.

L’anno seguente, oltre metà degli italiani pensava che l’immigrazione dovesse essere ridotta. In media, in Europa, il valore era di oltre 15 punti inferiore, con un dettaglio di rilievo: i cristiani – praticanti e non – appaiono molto meno tolleranti degli atei e degli agnostici. Sempre nel 2017 il Pew Research Center ha adoperato un indice di “propensione nazionalista, anti-immigrati e anti-minoranze religiose” per stilare una classifica dei Paesi più intolleranti: tra i 15 dell’Europa occidentale analizzati, l’Italia è risultata al primo posto – di gran lunga – con la Svezia all’ultimo. Leggendo questi studi non pare possa esserci altra conclusione: “da almeno 15 anni gli italiani sono fra i più razzisti e meno tolleranti nei confronti delle minoranze”, scrive Mancino. “Cerchiamo di non descriverli altrimenti perché, purtroppo, così non è”.

E se tanta insofferenza fosse causata dall’ordine pubblico? Premettendo che anche qui andrebbe fatto un ragionamento su come i media raccontano la cronaca nera, secondo Davide Mancino non ha senso confrontare il numero di crimini commessi dagli immigrati con quello dei reati degli italiani, perché sono due gruppi estremamente diversi tra loro: gli stranieri in media molto più poveri, giovani, e spesso maschi (categorie più propense a commettere reati comuni, a prescindere dalla nazionalità). “Se prendessimo, che so, persino gli immigrati italiani in Germania, sono sicuro che troveremmo che anche loro commettono più reati del tedesco medio”, spiega Mancino. “Vuol dire qualcosa? No, è semplicemente un confronto poco sensato che vale per buona parte degli immigrati del mondo. Se lo prendessimo per buono dovremmo bloccare gli spostamenti da ovunque verso ovunque, o quasi”. Un confronto può avere senso solo prendendo gruppi simili per età, sesso e caratteristiche socio economiche di base.

Mancino è tornato indietro solo fino al 2002, ma bastano questi numeri per capire che l’intolleranza degli italiani ha radici antiche. “Quali e quanti reati potevano mai commettere nel 2001 1,3 milioni di immigrati su una popolazione di 57 milioni di persone? Una percentuale ridicola, rispetto a quella di qualunque altro paese ricco”, scrive il data analyst.

I dati, da soli, senza intermediazione politica e culturale, non servono a niente. Ma possono fungere da bussole per orientare la discussione pubblica. Il voto del 4 marzo ha fotografato un Paese profondamente scettico – per usare un eufemismo – nei confronti delle soluzioni tradizionali ai problemi economici, delle élite che per vent’anni non sono riuscite a far uscire l’Italia dalla stagnazione, e di una globalizzazione dalla quale  si è sentito preso per i fondelli. Le forze politiche legate a un certo moderatismo liberale sono allo sbando, incapaci di convincere la gente con narrazioni alternative. Si vive, insomma, di percezioni drogate dalla propaganda. Tuttavia, uno studio commissionato da The Social Change Initiative in collaborazione con Ipsos e l’associazione More in Common esamina il dibattito politico nazionale, e sembra dipingere un quadro meno fosco di quello di Mancino.

La ricerca, anticipata in un incontro ad aprile al Festival del giornalismo di Perugia dal titolo “Capire il «centro ansioso» in Italia”, identifica sette segmenti nella società italiana: due mostrano valori più aperti e sono più solidali nei confronti dei migranti (28 per cento della popolazione); altri due segmenti hanno valori più chiusi e si oppongono ai nuovi arrivati, di qualunque tipo essi siano (24 per cento della popolazione). I tre restanti appartengono per l’appunto al cosiddetto “centro incerto” o “centro ansioso”, e assommano il 48 per cento circa degli italiani. Lo studio fotografa un Paese profondamente insoddisfatto dello status quo, sfiduciato nei confronti dell’establishment, preoccupato per le questioni di identità e appartenenza nazionale, convinto che stiamo perdendo il controllo della nostra cultura e dei nostri confini meridionali. E nonostante ciò, queste paure sembrano convivere con un discreto senso di ospitalità e di responsabilità morale verso i rifugiati, nonché di rifiuto delle posizioni più estremiste.

Migranti africani a Lampedusa.

Nelle conclusioni i ricercatori scrivono che l’Italia ha bisogno di un’alternativa coerente allo sciovinismo più aggressivo. C’è un vasto pubblico, potenzialmente molto ricettivo, per una narrativa patriottica italiana più inclusiva di quella che c’è ora; coloro che sono stati esclusi dalla globalizzazione vanno convinti parlando dei benefici economici della globalizzazione; i cattolici vanno coinvolti nella mobilitazione antirazzista, perché la maggioranza degli italiani è meno ostile a certi discorsi umanitari di quel che sembra.

 

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