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I microimprenditori italiani e la new canapa economy

Persone in coda per l’ingresso da MedMen a Los Angeles, dove dal 2 gennaio scorso è possibile acquistare marijuana per usi ricreativi.

In Italia si parla con sempre maggiore frequenza di cannabis. Senza entrare nel merito del dibattito sulla legalizzazione e limitando la discussione alla fattispecie giornalisticamente definita “light” (cioè con contenuto di tetraidrocannabinolo, il principio attivo psicotropo, entro il limite dello 0,2%), un fatto ha del sorprendente: nel nostro Paese si è assistito a un boom della attività legate alla cannabis senza che la sua gestione e la commercializzazione sia mai stata completamente normata.

La recente legge 242/2016 nata “per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (cannabis sativa L.), quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità”, garantisce la possibilità di coltivare alcune varietà di questa pianta  (iscritte nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002) senza necessità di autorizzazione.

Se però il faro si sposta sulla commercializzazione e sul marketing che ne deriva, non si può negare che il mercato si nutra di una serie di “non detto” che di fatto fanno da assist per il fatturato di un business in assoluta ascesa. Ma partiamo dal principio.

Formalmente la legge prevede che “dalla canapa coltivata sia possibile ottenere:
a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attivita’ artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
c) materiale destinato alla pratica del sovescio;
d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
f) coltivazioni dedicate alle attivita’ didattiche e dimostrative nonche’ di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
g) coltivazioni destinate al florovivaismo”.

Stando a uno studio promosso lo scorso maggio da Coldiretti, intitolato non a caso “La new canapa economy” l’Italia nel giro di cinque anni ha visto aumentare di dieci volte i terreni coltivati, dai 400 ettari del 2013 ai quasi 4000 stimati per il 2018 nelle campagne dove si moltiplicano le esperienze innovative, con produzioni che vanno dalla ricotta agli eco-mattoni isolanti, dall’olio antinfiammatorio alle bioplastiche, fino a semi, fiori per tisane, pasta, biscotti e cosmetici. L’80% della produzione si concentra fra le province di Mantova, Cremona e Brescia, a tradizionale vocazione agricola. Seguono Bergamo, Milano e Lodi. Solo a Milano e nell’hinterland sono una cinquantina i negozi che vendono erba light. Si tratta in realtà, rileva sempre la Coldiretti, di un ritorno per una coltivazione che fino agli anni ‘40 era più che familiare in Italia, tanto che il Belpaese con quasi 100mila ettari era il secondo maggior produttore di canapa al mondo (dietro soltanto all’Unione Sovietica).

Una storia di un successo emergente salita agli onori delle cronache qualche settimana fa, a poco più di un anno di distanza dalla entrata in vigore della legge 242/2016, dopo il parere del Consiglio superiore di sanità in merito alla libera commercializzazione. La notizia è esplosa sui giornali, gonfiata come una sorta di pietra tombale sul settore, ma è stato poi lo stesso ministro Giulia Grillo a ridimensionare la vicenda, specificando di aver chiesto opportuni approfondimenti in materia anche all’Avvocatura dello Stato e ad altre amministrazioni competenti, specificando che l’obiettivo non è quello di chiudere i “Canapa shop”, ma di effettuare una regolamentazione più rigida. Per cercare di fare il punto sullo status quo di questo business e cercando di comprendere cosa stia spingendo tanti micro-imprenditori a investirvi, Forbes Italia ha deciso di sviluppare un breve approfondimento in due puntate. Per prima cosa abbiamo deciso di interpellare chi ha dedicato le proprie attenzioni a questo settore ormai da diversi anni: Stefano Cislaghi, giovane imprenditore che insieme a Simone Lisardi ha dato vita a Green Utopia, una realtà milanese che da diverso tempo si occupa della commercializzazione della cannabis. Una chiaccherata utile per capire rischi e opportunità del mercato; e per comprendere che, con ogni probabilità, il parere del Consiglio superiore di sanità (Css) non sembra destinato a frenarne la crescita.

Come nasce Green Utopia?

Green Utopia è una società nata con lo scopo di dedicarsi agli sviluppi commerciali della cannabis in Italia. Le virtù di questa pianta, a lungo discusse in tutto il mondo, negli ultimi anni stanno trovando sempre più riscontri e, di conseguenza, più regolamentazioni in ogni settore commerciale e sociale.
Circa 5 anni fa, dopo analisi spicce di mercato, e sopratutto dopo alcune esperienze personali in ambito nutrizionale (diabete mellito tipo 1) abbiamo deciso di iniziare a trattare la cannabis specializzandoci nei suoi risvolti più semplici e quotidiani: l’integrazione alimentare e la cura del corpo.
Abbiamo notato infatti che nei decenni di discussione sulla cannabis in Italia l’argomentazione principale consisteva nel convincere gli scettici che l’utilizzo ricreativo non era da paragonare a quello di sostanze stupefacenti pesanti, ma alla ritualità del bicchiere di vino o della sigaretta dopo il caffè. Se pur in parte d’accordo con questa tesi, abbiamo valutato che fosse necessario un altro tipo di approccio con le persone, un approccio più professionale e distinto con argomentazioni diverse.
Troviamo più utile descrivere nella sua totalità gli utilizzi della pianta; cosa può avere più presa sull’opinione pubblica di discorsi sulle tradizioni agricole nazionali, sull’alimentazione, sulla cura del corpo e sugli aspetti terapeutici? Non screditiamo l’utilizzo ricreativo, saremmo ipocriti, ma pensiamo che ci sia da fare un percorso informativo completo prendendo atto che gli italiani hanno carenti nozioni generiche sulla cannabis; tutto ciò potrebbe portare un sblocco della questione medica, più offerta in vari settori commerciali (alimenti, cosmesi, design, edilizia, bonifica) e infine anche delle regolamentazioni per l’utilizzo ricreativo.

Quali sono, attualmente, i vostri prodotti più venduti? A quali consumatori vi rivolgete? 

Nell’ultimo anno sicuramente ha avuto molta presa il commercio di inflorescenze di cannabis sativa L. per utilizzi tecnici (implicitamente vaporizzazione o combustione) e anche in questo punto vendita vengono trattate. Riusciamo però a sfruttarle più da calamita mainstream, per poi spiegare tutti gli altri ambiti di impiego di questa risorsa, in maniera da risultare come consulenti a un acquisto consapevole di un prodotto di canapa a seconda delle richieste. Per esempio, una signora fibromialgica che richiede Cannabis “light” per tamponare il dolore patologico sfruttando la presenza del cbd (principio attivo miorilassante, anticonvulsivo e antidolorifico) verrà consigliata, oltre che a chiedere anche a un medico, a comprare prodotti da tisana o da integrazione sublinguale molto più compatibili con una terapia.
Oltre alle sopracitate inflorescenze i prodotti più venduti in questo punto vendita sono quelli di integrazione di cbd (olii sublinguali e compresse), tisane e pomate antidolorifiche.
Ci rivolgiamo volutamente a un pubblico di adulti, l’utenza del negozio va dai 30 anni in su, probabilmente anche per la scelta dei prodotti esposti in netto vantaggio rispetto ai pochi di oggettistica da fumatori più interessanti per i giovanissimi.

Giudicando la vostra attività dal punto di vista imprenditoriale, quali possono essere le principali difficoltà relative all’operare in questo settore (nel nostro Paese), unitamente alle potenzialità?

Per come abbiamo strutturato la nostra attività, faccio fatica a trovare delle vere e proprie difficoltà. Anche la stessa “chiusura” dell’opinione pubblica, presa con le giuste dosi, può essere un ottimo tramite per sensibilizzare proprio gli scettici, utilizzando informazioni più complete possibili, fornendo fonti adeguate e ponendosi nel migliore dei modi.
Quello che può provocare difficoltà è il percorso legislativo che rimane ancora molto lacunoso e volutamente confusionario. Poste le giuste basi di confronto, le potenzialità sono di un guadagno verticale in ogni settore, dalla piantagione al negozio, passando per quello medico e sociale, come in moltissimi paesi del mondo.

Quali possono essere a vostro avviso gli ambiti di utilizzo della canapa dal maggior potenziale imprenditoriale? E nei prossimi anni?

Oggettivamente bisognerebbe dividere comunque le finalità dei prodotti per categorizzarli al meglio. Sicuramente a oggi c’è stato un forte sviluppo di aziende nate per la coltivazione di cannabis per i cosiddetti utilizzi tecnici (tipo EasyJoint). Trovo però che sia solo una fase di transizione per provocare, dato il totale interesse del pubblico, uno sviluppo di tutta la filiera della pianta.
Sicuramente questo specifico settore delle light continuerà a svilupparsi, tendendo sempre più ad arrivare a una produzione e vendita, sperando in una legge ad hoc, anche della cannabis a thc elevato. Ma, detto questo, essendoci un interesse in costante ed esponenziale aumento in ambito terapeutico, spero e prevedo che emergeranno sempre di più realtà specializzate nella produzione galenica o integrativa.
Lo sviluppo di questi due settori, medico e ricreativo, spingerebbe di certo anche l’uso dei derivati della pianta, alimenti e cosmesi sopratutto.

Come pensate potrebbe evolversi la legislazione della cannabis in Italia nei prossimi anni? Cosa possiamo ragionevolmente aspettarci a vostro avviso?

Il legislatore sembra quasi non volersi prendere la responsabilità di rendere inequivocabili gli spunti offerti dalla legge 242/2016. E’ innegabile che, laddove si offrissero più controlli di sicurezza e normative chiare, tutto ciò potrebbe ulteriormente sviluppare l’interesse del mondo agricolo nel rivalutare territori ormai dismessi e quello degli investitori italiani ed esteri a investire sul territorio nazionale.
Prima di tutto occorre però dare certezze a chi si trova nell’assurda e disarmante situazione di riuscire, dopo numerose e assurde odissee e pregiudizi, a ottenere un certificato medico per i cannabinoidi, ritrovandosi però poi senza farmaco, dato che non abbiamo nè una vera produzione (se non per  il limitato esperimento dell’esercito a Firenze), nè una costante importazione dall’estero.
Ci auguriamo una vera e propria discussione parlamentare per affrontare tutti gli argomenti sopracitati.

Rimanendo sempre in tema di normativa e autorità, ha fatto molto rumore la notizia del parere negativo del Css alla commercializzazione della cannabis in Italia.  Quali potrebbero essere le conseguenze per la vostra attività?

La questione verteva su l’impossibilità a escludere totalmente effetti collaterali del thc, seppur nei limiti di legge, nei soggetti più sensibili (donne in gestazione, bambini, malati, anziani).
Personalmente ho trovato la questione decisamente faziosa e speculativa, una presa di posizione ideologica su un commercio che è per certi versi scomodo.
Il ministro della sanità Grillo ha immediatamente chiarito con un’intervista a La Stampa la mattina successiva alla notizia del Ccs che il mercato della cannabis in Italia non è a rischio, è che ci sarà “semplicemente” da lavorare su normative ancora più chiare e sulle garanzie.
Una delle priorità espresse dal ministro è la modifica del profilo di utilizzo sanitario della cannabis e la gestione della distribuzione in funzione di chi ne ha diritto.
A tal proposito, mi permetto anche di esprimere un fortissimo disappunto verso la divulgazione frenetica e insensata della notizia del Css, senza nemmeno approfondire la questione, svolta apparentemente per creare panico tra utenti e proprietari dei negozi, mentre la smentita del ministro Grillo è stata quasi totalmente ignorata.
Il Css è un organo di consulenza del ministero della sanità e di certo non ha potere nè direttivo nè legislativo. Riassumendo: le conseguenze del parare del Ccs non sono per ora rilevanti.

Quali sono i vostri progetti per il futuro?

Continuare a prepararci sempre più professionalmente e culturalmente su tutto l’argomento cannabis continuando a essere riconosciuti, come ormai avviene da tre anni, come punto di riferimento per la consulenza sull’acquisto dei prodotti di tutta la filiera Italiana.
Desideriamo essere un crocevia per molti settori, offrendo sempre più servizi e collaborando con altre aziende, associazioni no profit, enti statali e soprattutto con il mondo medico.
E’ già in programma l’apertura di un Green Utopia 2.0, ma concedetemi una certa riservatezza aziendale.

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