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Negozi aperti la domenica: questione minore o guerra di religione?

Luigi Di Maio

Una ridicola imposizione da parte dello Stato dirigista, oppure una conquista di civiltà che potrebbe renderci tutti più umani? La promessa di Di Maio di approvare entro l’anno una legge che imporrebbe lo stop nei fine settimana e nei festivi ai centri commerciali coinvolge inevitabilmente considerazioni non solo economiche ma anche politiche e ideologiche. Bisogna disciplinare aperture e chiusure, spiega il ministro del Lavoro, perché “l’orario liberalizzato dal governo Monti sta distruggendo le famiglie italiane”. Da qui è partita una polemica che trascende i partiti e le coalizioni, e riguarda la visione di mondo che si vorrebbe imporre nella guida di un Paese: ma quella delle domeniche senza shopping è una sciocchezza o un modo per tutelare i lavoratori?

La premessa è banale: non parliamo dell’effetto benefico sul dipendente di un negozio se, a parità di ore lavorative, il suo salario non venisse intaccato, ma piuttosto dell’effetto di un provvedimento del genere sulla salute di quel negozio stesso, e più in generale nell’economia di un Paese nel suo complesso. Il punto è che l’economia complessiva è fatta da un gioco a incastri tra interessi particolari e spesso contrapposti, e la politica ne deve tener conto; specialmente se, come nel caso del Movimento 5 Stelle, ha raccolto un consenso invidiabile tra gli strati sociali, di reddito e demografici più disparati. In altre parole, proviamo a capire – senza pregiudizi – se l’iniziativa di Di Maio, piuttosto che essere giusta o sbagliata in quanto tale, si può inserire in un contesto benefico per il più vasto numero di persone possibile.

La diatriba sui supermercati aperti oppure no la domenica è una questione dibattuta in molti altri Paesi europei, e non dovrebbe essere presa sottogamba. Innanzitutto, quali sono le istruzioni di Bruxelles sul tema? Non troppe, in verità. L’Ue si limita a lasciare ogni governo libero di stabilire le sue regole, purché sia concesso un giorno libero ogni sei di lavoro. E ognuno fa un po’ come gli pare: la Germania e la Francia hanno i negozi chiusi, in Spagna ogni comunidad sceglie per conto proprio; in Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo c’è solo apertura parziale.

Il governo polacco ha recentemente approvato la chiusura dei negozi la domenica a partire dal 2020. Nazionalista e conservatore, lo ha fatto partendo da considerazioni non troppo dissimili da quelle di Di Maio: l’idea è quella di far passare più tempo insieme alle famiglie, lontano dai centri commerciali, e la Chiesa sembra essere d’accordo. Se PriceWaterHouseCooper ha previsto un crollo degli introiti per la vendita al dettaglio e dei posti di lavoro, alla Conferenza dei vescovi polacchi sono entusiasti: “Non pensiamo di poter organizzare la vita del Paese come se Dio non esistesse”. In realtà, persino in Germania la domenica è preservata come giornata di “edificazione spirituale”: lo dice, pensate, la loro Costituzione.

Altri dicono: la chiusura obbligatoria è una scelta sbagliata perché, se si vogliono tutelare i lavoratori sfruttati, si devono imporre regole nuove e farle rispettare: una turnazione diversa, il pagamento preciso degli straordinari, una partecipazione sindacale che lasci agli impiegati la facoltà di scegliere. Difficile però far passare questa linea come qualcosa in più di una semplice utopia, in un Paese come l’Italia, dove il lavoro nero è diffuso ovunque. Diverso è il discorso sulle ricadute economiche e sociali di una eventuale proibizione, che potrebbero dirci se una cura è o no peggiore del male, che in questo caso è il troppo lavoro. Ma la verità è che in tutte le ricerche accademiche che affrontano la deregulation dei supermercati le conclusioni sono sfumate. La letteratura teorica è confusa, e non è facile giungere a una conclusione netta.

In una ricerca del 1996 della Vrije Universiteit di Amsterdam, si segnalano i possibili benefici, in termini occupazionali, della totale liberalizzazione degli esercizi commerciali in un equilibrio non cooperativo, soprattutto per le grandi catene. Secondo l’Istituto Bruno Leoni, i paesi dell’Unione Europea a non avere restrizioni sugli orari di apertura sono 16 su 28, e anche negli Stati dove sono in vigore le maggiori limitazioni – ad esempio in Grecia, Germania e Francia, le deroghe alla chiusura domenicale e festiva sono molto più ampie di quelle proposte dai Cinque stelle (in Grecia è stata la famigerata troika ad imporre più flessibilità come una delle condizioni per il bail-out). A leggere uno studio del 2015 realizzato dal Centre of Economic Performance di Londra, come effetto delle liberalizzazioni del commercio domenicale disposte in 30 Paesi europei tra il 1999 e il 2013, ci sono stati tra il sette e il nove per cento di occupati in più, e gli effetti della crisi in parte sono stati attutiti con questo. Ma basta la razionalità dei numeri a giustificare una riforma? O c’è il suo valore simbolico, da considerare?

Se anche i dati evidenziassero senza ombra di dubbio che i consumatori e l’economia in generale beneficiano della liberalizzazione, un governo ha il diritto e il dovere di considerare l’impatto di lungo termine sulla salute dei lavoratori, e del suo bilanciamento di lungo termine tra vita e lavoro. Un sondaggio in Francia del 2014 registrava che la maggioranza della popolazione sarebbe stata favorevole all’apertura domenicale, se ai lavoratori fosse stato garantito il raddoppio della paga. Ma la sola remunerazione economica dei lavoratori e la sola performance economica delle imprese non possono e non devono ostruire la progettualità politica: basti pensare alle questioni ambientali o di salute pubblica, come l’amianto o il nucleare, che hanno costretto l’opinione pubblica e le maggioranze parlamentari a sacrificare una crescita nel breve periodo per un maggiore benessere collettivo nel lungo.

Di certo c’è che il lavoro domenicale è già un realtà che riguarda un numero sempre crescente di persone, e sfuggirvi sarebbe sciocco: secondo un sondaggio del 2015 di Eurofound sulle condizione di lavoro degli europei, nel Vecchio continente il 52% degli intervistati lavora in media almeno un sabato al mese, il 23% almeno tre sabati al mese. Sebbene la quota di domeniche lavorate al mese sia in calo dal 1995, la percentuale di lavoratori impiegati almeno una domenica al mese è passata dal 28% del 2010 al 30% del 2015: tra i più indaffarati la domenica ci sono gli scandinavi e i britannici; quelli che si riposano di più Italiani, portoghesi, ciprioti e tedeschi. L’estensione del lavoro atipico non si potrà evadere con leggi di contenimento della globalizzazione, ed è proprio il fatto che oggi nelle famiglie a lavorare tendono ad essere entrambi i partner uno dei fattori che più influiscono nella domanda di flessibilità per organizzare il proprio tempo.

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