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Dieci anni dopo, cos’è rimasto di David Foster Wallace?

David Foster Wallace.

Proprio dieci anni fa, il 12 settembre 2008, lo scrittore americano oggi di culto David Foster Wallace si tolse la vita. Tragico epilogo di una esistenza di continue cure a fronte di periodi di depressione molto bui, ma anche di un percorso costellato da opere fondamentali e rivoluzionarie per gli anni ’90 e 2000, come la raccolta La ragazza dai capelli strani, il romanzo-mondo Infinite Jest, e saggi narrativi che hanno fatto scuola: sul tennis incantato di Roger Federer, su David Lynch e John McCain, sull’esplorazione di non-luoghi della modernità come crociere, sugli awards del porno, sulle fiere dell’astice della provincia americana, senza contare una larga produzione di saggi-recensioni e rilanci di libri e autori (non solo americani). L’icona pop di Wallace, il ragazzone con la bandana, gli short da tennis e gli occhialetti nerd, è stata resa celebre anche da Hollywood in un biopic recente, The End of the Tour, con Jason Segel nei panni dell’autore. Quanto di Wallace è rimasto dopo dieci anni, al di là del gossip, delle malelingue e del peso di un autore reso suo malgrado un mito insostenibile? Come lo leggono e lo interpretano gli autori contemporanei, non solo americani?

Abbiamo deciso di celebrare adeguatamente il decennale della sua scomparsa andando a intervistare voci europee e americane tra le più importanti, alcune delle quali paragonabili a Wallace per il lavoro sul linguaggio e la misura eccedente del romanzo. A parlarci del “loro” Wallace, oltre al suo contemporaneo George Saunders (con cui già parlammo in questa intervista per Forbes), sono stati lo scrittore ungherese Laszlo Krasznahorkai (egli stesso un mito vivente e candidato al Nobel in pectore), l’argentino Rodrigo Fresán (oggi molto considerato negli States e persino additato come degno erede avant-pop di Borges), l’innovatore Tom McCarthy, romanziere britannico tra i più versatili, e due delle nuove voci della scrittura americana femminile, recentemente apparse in Italia, ovvero Alexandra Kleeman e Catherine Lacey.

Nelle parole che ci concede Laszlo Krasznahorkai – l’autore di Satantango e Melancolia della Resistenza, capolavori da poco pubblicati da Bompiani in Italia – traspare innanzitutto un senso di rammarico per una carriera geniale stroncata: se Wallace, ci dice, “fu uno scrittore che colpì prepotentemente con il suo peso la letteratura americana”, è anche vero che oggi non possiamo che annoverarlo tra i talenti geniali “che non hanno potuto completare sé stessi”. Questa interruzione è forse evidente, per Krasznahorkai, anche nel fatto che un colosso come Infinite Jest affronti in modo sopraffino la società americana nel suo “solipsismo e edonismo”, ma per l’autore non sarebbe un testo da consigliare come vademecum “per il South Bronx o il North Carolina o il Mississippi”. Perché l’America contemporanea soffre, a suo parere, “di molte altre epidemie”, ci ha spiegato durante l’intervista, e quel romanzo per certi aspetti risulterà datato al lettore. I brillanti reportage di Dfw sono dunque invecchiati?

Per Alexandra Kleeman, l’autrice americana della raccolta Intimations e del romanzo You Too Can Have a Body Like Mine, tradotto in Italia dalle edizioni Black Coffee (Il corpo che vuoi, trad. it. Sara Reggiani), Wallace è stato “uno scrittore con un senso dell’empatia fuori dalla norma, tenero e nevrotico a un tempo”, e forse proprio per questo lei ci cita subito il famoso saggio che dà il titolo alla celebre raccolta Considera l’aragosta (Einaudi, 2006), “un pezzo spettacolare”, afferma l’autrice, “diretto e ipersensibile sulla crudeltà ritualizzata dalla società e dalla cultura”. “Cosa rimarrà di Wallace?”, le chiediamo. I saggi, afferma, ben più che Infinite Jest: “Un libro che non ho mai letto e non ho mai avuto alcun stimolo a farlo”, dice. “Come scrittrice che si avventura nel giornalismo”, continua la Kleeman, “sento la presenza di Wallace ancora palpabile: poco fa stavo proponendo un articolo sull’esperienza di viaggiare nelle navi da carico, ma due differenti editor mi hanno detto che non volevano «pezzi sulle navi» perché Wallace aveva scritto il pezzo definitivo sul genere (Una cosa divertente che non farò mai più)”. E continua l’autrice: “È nei suoi saggi che il suo modo di pensare è veramente eccezionale”; forma mentis che per lei si associa anche a una forte istanza etica: “Nel suo lavoro, Wallace ha messo in luce tutti quelli che stavano soffrendo – umani e altri animali dolenti, depressi, disadatti ed estranei al mondo che li circondava. Questo è stato il suo straordinario sguardo etico sulle cose.”

Un’altra americana che abbiamo interpellato, Catherine Lacey – scrittrice classe 1985 portata in Italia dalle edizioni Sur e da Martina Testa, una delle prime traduttrici di Wallace in Italia – condivide con Kleeman l’idea che oggi Wallace sia stato soffocato dal suo stesso mito di “autore geniale”, in una sorta di “presenza eccessiva” e nella citazione forzata di e su Wallace imposta sia da parte dei suoi fan che dei suoi detrattori. Nell’ottica di un’aura negativa recente è il caso di ricordare le accuse di machismo e misoginia che negli ultimi tempi sono spuntate contro Wallace stesso (negli articoli di Molly Fischer, nel rifiuto di Amy Hungerford di leggere pagine dell’autore, nei commenti di Deirdre Coyle nonché nelle accuse della sua ex Mary Karr). Siamo di fronte a un effetto boomerang dovuto all’eccessivo fanatismo sull’autore?, domandiamo alla Lacey. “Ho la sensazione”, ci confessa, “che fosse uno scrittore pieno di compassione, a volte intenzionalmente difficile e altre intenzionalmente «macho», e questo ha contributo ad attrarre una specifica varietà di fan maschi”. Ma aggiunge di non trovare “davvero misoginia nel suo lavoro”, oltre al fatto che “è sempre un problema quando si mescolano fattori esterni (i fan di un autore, la sua celebrità o reputazione) con un’opera”.

Tre degli autori che abbiamo intervistato: da sinistra, László Krasznahorkai, Alexandra Kleeman e George Saunders.

Cosa penserà invece un autore in lingua spagnola di Wallace? Rodrigo Fresán, autore celebrato benché ancora poco noto in Italia, oggi propone l’opera più azzardata e avvincente scritta in lingua spagnola: la sua trilogia La parte inventata – tradotto e pluripremiato recentemente in America – La parte sognata e La parte ricordata (usciti o in uscita per Random House Mondadori) supporta un’idea di romanzo ambizioso tra metaletteratura e romanzo-saggio, che in parte possiamo legare ai lidi wallaceani. Parlando di Wallace, ci dice Fresán, “mi sono sempre sentito vicino a quel tipo di letteratura americana dai toni perversamente polimorfi, che credo parta già da Moby Dick: che è una sorta di White Album della letteratura moderna, un artefatto omnicomprensivo che contiene tutte le estetiche fino a quel momento scritte, e che preannuncia quelle a venire”. In questo senso, continua, il caso di Wallace è una specie di “decompressione-espansione” di tutto quanto si è accumulato dopo Moby Dick. E Fresán cita gli stessi maestri di Wallace (Pynchon, Barthelme, Vonnegut, tra gli altri) come ultimi anticipatori dell’avvento dell’autore di Infinite Jest: “forse”, aggiunge “mi avvicino a lui più per la sua lettura (i suoi autori) che per la sua scrittura.”

Ma scrivere un’opera come Infinite Jest è ancora possibile? L’argentino crede che da un lato non ci sia molto spazio oggi per siffatte opere gigantesche, ma che da l’altro lato “fortunatamente ci sono ancora certi tipi di editori – e di lettori – interessati a frasi che vadano oltre i 140 caratteri”. Cosa significa innovare oggi nel romanzo, allora, dopo Wallace? “Non ho mai avuto personalmente una vocazione innovatrice”, ci confessa Fresán, “o meglio: credo che la mia opera sia il risultato di una sommatoria di fallimenti che, per accumulo, alla fine configurano qualcosa di interessante. Penso che accada questo anche in Wallace”, e questa è la sua originalità, per Fresán: non aver potuto scrivere altrimenti ciò che ha scritto.

Secondo lo scrittore britannico Tom McCarthy, romanziere multiforme, saggista e peculiare attivista culturale – del quale sono stati pubblicati in Italia quattro romanzi di cui l’ultimo, Satin Island per Bompiani nel 2016 – Wallace ha saputo proporre un’opera visionaria perché con ben “20 anni d’anticipo” ha compreso “l’attuale società dei social media e la sua relazione con la dipendenza e il controllo sociale” con opere come Il re pallido, un romanzo che, aggiunge McCarthy, “parla assolutamente della nostra epoca, di come scrivere in un’era di saturazione” di dati e informazioni. Anche a McCarthy, come a Fresán, chiediamo se siano ancora i tempi adatti per il romanzo massimalista proposto da Wallace: “Cosa rende un romanzo unico come forma è proprio il fatto che abbia sempre a che fare con lo spettro della propria ridondanza, si parli del Don Chisciotte o di Tristram Shandy o di Infinite Jest”.

Concludiamo il nostro percorso tra nazioni e lingue differenti con l’autore che oggi è più vicino nel ricordo e il più lontano nel fanatismo di Wallace: George Saunders. L’affermato autore di Lincoln nel Bardo (Feltrinelli, 2017, trad. it. Cristiana Mennella) riconosce la presenza unica di Dfw nella sua generazione: “Come con Hemingway, la maggior parte degli scrittori della mia generazione tentarono di rispondergli in un modo o nell’altro, emulandolo o cercando di non farlo”. E aggiunge, avendolo anche frequentato personalmente, che Wallace “aveva un cuore grande e intrepido come il suo linguaggio”. Polemiche e gossip a parte, chiediamo anche a Saunders cosa rimarrà di lui. “Prima di tutto”, risponde, “il modo in cui rappresentava la mente sulla pagina, con tutte le sue nevrosi, ripensamenti e confusioni”. Per l’autore, il collega “sapeva tracciare magicamente il movimento della mente umana, specialmente di quella ansiosa. Quindi finché saremo umani e saremo ansiosi, l’opera di Dave ci parlerà”.

In cosa consiste, dunque, l’eccezionalità di Wallace? “Lui è andato fino in fondo. Era sfacciatamente e appassionatamente sé stesso. Ha trovato un modo, nella sua prosa, di distillare il proprio sé e pomparlo al massimo volume concesso. In questo processo ci ha rivelato alcune cose esagerate ma vere (o forse vere in quanto esagerate) di noi stessi, e ha ispirato future generazioni di scrittori a essere gioiosi e turbolenti, spingendo al limite il linguaggio e la forma”. Le generazioni future di scrittori sapranno ancora seguire l’ispirazione di Wallace, in modo “gioioso e turbolento”, trascurando le dicerie e i fanatismi negativi che girano sul suo conto di questi tempi? La risposta, se c’è, è fra le righe delle risposte di questi grandi autori del 2018.

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