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Perché non saranno i miliardari a salvare i giornali

L’ex direttore di Time Richard Stengel.

Mentre in Italia sembra crescere il risentimento di una parte politica verso la stampa, accusata di orchestrare una operazione “di discredito” verso il governo, negli Stati Uniti non sono messi meglio. Dopo che un editoriale anonimo sul New York Times ha fatto sapere che qualcuno, alla Casa Bianca, sta organizzando una resistenza attiva per sabotare le azioni più scriteriate di Trump, il presidente è passato ad attaccare il quotidiano dicendo che “fallirà”. “Quando tra sei anni e mezzo non sarò più presidente, il NY Times, Cnn e altri media falsi avranno cessato le loro attività”. Ma l’insofferenza reciproca tra governanti e controllori si inserisce in una più complessa disfida tra un medium sempre più in crisi e una classe di padroni dell’universo che potrebbero esserne i salvatori.

Nel nostro Paese, l’idea di trasformare gradualmente il sistema dell’editoria per avvicinarsi al modello degli editori “puri” – cioè impegnati a fare profitto soltanto con i propri giornali è nient’altro – esiste da sempre. Nel dopoguerra italiano, ha scritto l’ex direttore del Corriere Alberto Cavallari, era palese che “nessuna «ideologia» potesse risolvere il grande problema di un’attività industriale anomala, che produce delle informazioni, con merci che hanno prezzi più bassi del costo e con merci vendute a prezzi più bassi del costo, cicli di produzione dove conta la velocità e non la produttività, bilanci «esogeni» coperti dalla pubblicità e non dalla vendita del prodotto”. Lo Stato tentò di gestire radio e televisione lasciando ai privati giornali e riviste, ma la concorrenza finì per distruggere i “puri” troppo piccoli, e così si ricorse alle sovvenzioni di Stato, si aprirono valvole di sfogo con le privatizzazioni. Negli anni Ottanta faceva scuola L’Independent, la quintessenza dell’editore puro, e non a caso Piero Ottone quando coniò questa definizione aveva in mente proprio il modello del giornalismo anglosassone.

Ma le cose non andarono così lisce: gli editori puri mostrarono che la purezza può chiamarsi P2, che le sovvenzioni di Stato spesso tornavano ai partiti, mentre gli editori impuri mandarono avanti la logica delle concentrazioni e dei cartelli, anche con intese ideologiche, oppure tramite il do ut des con lo Stato. In fondo, concludeva Cavallari, “l’opinione pubblica si produce industrialmente”, ed era l’ultimo dei problemi. Per molti anni, nei dibattiti parlamentari e non solo in quelli, i partiti hanno posto questo problema. Più recentemente, i terremoti nel gruppo Il Sole 24 Ore, in un colosso editoriale come Rcs e in uno televisivo come Mediaset, hanno evidenziato l’ovvia commistione tra interessi economico-finanziari e interessi giornalistici. Il risultato è che negli ultimi anni si contano sulle dita d’una mano i gruppi editoriali autonomi, la cui azienda vive solamente degli utili e delle perdite che la testata produce.

Questo ci porta negli Stati Uniti. Dove “il sistema capitalista ha creato una ricchezza così abbondante che i miliardari la stanno utilizzando per salvare i giornali: non per migliorare il proprio reddito, ma come un servizio pubblico”, scrive Forbes. Ci sarà da credergli? Di fatto l’avventura dei nuovi imprenditori dell’editoria sembra folle, se ricordiamo che già nel 2009 l’imprenditore Warren Buffett sosteneva che “i giornali hanno un futuro terribile”. Il paradosso è che due anni dopo l’oracolo di Omaha avrebbe acquistato un altro quotidiano, circa il trentesimo della sua collezione (in cui c’erano già una cinquantina di riviste). Certo, da allora molti dei giornalisti sono stati licenziati, a causa della concorrenza dell’online e del calo degli introiti. Ma cosa aveva spinto, allora, l’oracolo a investire in un settore così disastrato? Se i giornali non hanno futuro, perché i miliardari continuano a comprarli?

Jeff Bezos, proprietario del Washington Post.

È quello che sta succedendo: nel febbraio di quest’anno il Los Angeles Times, che non navigava in buone acque, è stato acquistato per quasi 600 milioni di dollari dal magnate delle biotecnologie Patrick Soon-Shiong, che è stato anche consigliere di Donald Trump durante il periodo di transizione presidenziale e prima ancora al fianco dell’ex vice presidente Joe Biden per un’iniziativa contro il cancro. “Una decisione personale,” ha spiegato. “Avendo vissuto nel Sudafrica dell’apartheid, capisco il ruolo del giornalismo in una società libera”. Il Nyt non è stato così benevolo, e ha parlato dei rischi di un clima antisindacale e di uno stravolgimento della cultura editoriale del quotidiano.

L’ultima acquisizione a fornire la prova del crescente interesse dei big tecnologici nei media è quella della rivista Time da parte di Marc Benioff, fondatore e Ceo di Salesforce, per 190 milioni di dollari in contanti qualche giorno fa. Non è passato molto da quando il magazine americano (100 milioni di lettori tra stampa e web) era stato acquistato dai potentissimi Charles e David Koch, rispettivamente il 12esimo e 13esimo uomo più ricco al mondo, in un “pacchetto” da 650 milioni di dollari che comprendeva anche riviste come People e Fortune. I due fratelli, nonostante l’impegno politico da sempre altalenante tra democratici e repubblicani (i due sono avversari di Trump sul tema dazi e immigrazione) assicurarono allora di non voler mettere bocca nella linea editoriale. Eppure il segmento del canale tv pubblico Pbs che parla di scienza – finanziato interamente da David Koch – notoriamente non parla molto di temi ambientali, in particolare del riscaldamento globale. Ora la famiglia Benioff ha fatto sapere in un comunicato che “non sarà coinvolta nelle decisioni giornalistiche quotidiane”. Ma si occuperà di una nuova direzione strategica, con un particolare focus sul digitale.

Altro flashback: nell’aprile del 2017 Ron Perelman, 18 miliardi di dollari di patrimonio, aveva comprato l’Independent, con sede in East Hampton a Londra. “Credo nella storia e nella tradizione”, disse. Nel 2015 Sheldon Adelson, “la figura più potente e apertamente politica” del Nevada, secondo Business Insider, si impossessava del Vegas Review-Journal per 140 milioni di dollari. Un prezzo spropositato e inspiegabile, secondo il Times, che ricordava anche il record di querele lanciate da Adelson contro i giornalisti che avevano portato avanti inchieste sul suo impero.

Nell’agosto del 2013 John Henry, proprietario dei Boston Red Sox, aveva comprato il Boston Globe per 70 milioni, venduto proprio dal NY Times, che a sua volta l’aveva acquisito nel 1993 poco prima che internet sconvolse tutto (alla cifra, pensate, di 1,1 miliardi di dollari). Andando ancora più indietro nel tempo: nel 2007 Rupert Murdoch aveva comprato il Wall Street Journal per cinque miliardi di dollari attraverso News Corporation, togliendola dalle mani della dinastia Bancroft che l’aveva posseduta per oltre un secolo.

Rupert Murdoch di News Corp.

Ma il caso più clamoroso è quello di Jeff Bezos, fondatore e ad di Amazon, attualmente il numero uno sul Billionaires Index (123 miliardi di dollari) che nell’ottobre del 2013 aveva comprato il monumentale Washington Post per 250 milioni di dollari. Briciole, per lui. Ma con un piano ambizioso, come ha scritto Jim Friedlich di Empirical Media: quello di trasformare il Washington Post “in un prodotto in cui BuzzFeed incontra Woodward e Bernstein (i giornalisti del Watergate, ndr)”. Un giornale che in 40 anni — dal 1972 al 2012 — si era trasformato in un quotidiano regionale, che rischiava di diventare un’altra vittima della rivoluzione digitale, è tornato a fare concorrenza al New York Times, superandolo nel 2016 per la prima volta nella storia nei lettori unici mensili, e diventando uno dei bersagli liberal preferiti da Trump.

È masochismo, questo? L’acquisizione dei giornali da parte delle élite economiche è una pratica di lungo corso, in un cursus honorum che include figure come William Randolph Hearst. Il punto è che oggi ci sono molti più miliardari di prima, con asset pompatissimi nonostante la crisi economica del 2008, che se ne fregano se la stampa sembra in una spirale discendente. Anzi, confidano nelle potenzialità delle versioni online dei quotidiani e dei paywall, anche se pure questa rischia di restare una chimera. E un po’ di conti in rosso possono valere la possibilità di influenzare la politica e la Storia. In fondo, un miliardario testardo che si sobbarca un giornale da solo non ha azionisti da viziare, e può essere fermato solo dalla forza dell’antitrust o dagli ostacoli fiscali (in Italia, sappiamo bene che anche questo è aggirabile). Da noi anche le leggi più avanzate hanno funzionato come diritto feudale elargito dallo Stato-principe “pluralista”. Un potere, considerato inizialmente neutro, manovrato dalle banche di Stato, che ha creato “vassalli, valvassini, valvassori tra gli amici dei partiti e delle correnti”, sempre per usare le parole di Cavallari. In America, il gioco si fa più alla luce del sole.

Nel breve termine, l’arrivo dei miliardari potrà avere un impatto sulla nozione di giornalismo redditizio: la tendenza in atto è quella di sviluppare contenuti modellati su misura per una clientela selezionata e affluente che non può godere di questi privilegi con la stampa massificata. Mike Allen con la sua startup Axios e Michael Bloomberg con la sua società omonima hanno perfezionato questo modello di business basato su una sorta di “super paywall”, che garantisce briefing e report di altissimo livello qualitativo – talvolta in tempo reale – per chi è disposto a pagare migliaia di dollari in abbonamento, o per i finanziatori del progetto, sotto forma di servizio in anteprima. Un altra prospettiva è quella di ingraziarsi i miliardari attaccando i loro nemici politici. James O’Keefe, l’aspirante Michael Moore dell’estrema destra, tentò di intrappolare il Washington Post con una finta testimonianza contro il candidato repubblicano al Senato Roy Moore. Un tentativo fallito miseramente, ma nulla ha impedito a O’Keefe di essere coperto di denaro dalla famiglia Mercer, storici finanziatori del partito repubblicano, che hanno donato centinaia di migliaia di dollari alla sua associazione Project Veritas nonostante la figuraccia mondiale.

Questo è un cambio di paradigma di cui tener conto. I miliardari potranno anche avere a cuore la salute del giornalismo, e noi in Italia invidiarne lo sterminato potere economico. Più è piccolo e povero un Paese, infatti, più è difficile per la stampa sopravvivere senza finanziamenti statali, elemosina pubblica o editori “impuri”, per l’appunto. Ma in una fase storica in cui c’è una vera e propria Internazionale reazionaria pronta a prendere il potere dall’una e dall’altra parte dell’Oceano, i fondi dell’élite globale potrebbero servire a scopi tutt’altro che liberali. Scrive la Columbia Journalist Review: “Stranamente, nel modo in cui spendono i soldi, che spesso smentisce la tradizionale teoria economica dell’interesse egoistico, gli investitori nei media di destra sembrano mostrare una fiducia più sincera nel potere della stampa di tanti altri editori apparentemente progressisti”. Tra editori puri che non esistono più e impuri che sembrano onnipotenti, di certo c’è solo che il giornalismo è nelle mani di poteri finanziari che vanno contro ogni logica di mercato. 

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