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Borsalino, storia di rinascita del mito italiano dei cappelli

L’imprenditore italo-svizzero Philippe Camperio è riuscito a salvare Borsalino dal fallimento investendo più di 10 milioni di euro.
(Lionel Flusin

Articolo tratto dal numero di gennaio 2019 di Forbes Italia. 

Un mito non muore mai. Soprattutto se si tratta di Borsalino, non un cappello qualsiasi, ma il cappello per eccellenza. Una storia che ha inizio oltre 160 anni fa lontano dai riflettori scintillanti di Hollywood, ad Alessandria, in Piemonte, grazie alla geniale intuizione di Giuseppe Borsalino, un giovane di umili origini, che, dopo un’esperienza di apprendistato a Parigi e un diploma di cappellaio, nel 1857 diede vita, insieme al fratello Lazzaro, a quello che sarebbe diventato uno dei primi simboli della moda italiana.

Tutti all’epoca indossavano il Borsalino, durante riunioni, feste ed eventi speciali. Le strade erano come rivestite da un manto glorioso di cappelli, sopra ogni testa trionfava il copricapo creato dal signor Giuseppe. Agli inizi del ’900 l’azienda fabbricava circa 2.500 cappelli al giorno e vantava 300 operai, la parola Borsalino comparve presto tra le voci dell’Oxford Dictionary quale “nome comune di cappello di feltro a falda larga”, mentre nel cinema identificava la posizione sociale dei personaggi e fu il protagonista di scene indimenticabili. Nei ruggenti anni ’20 il Borsalino (da molti conosciuto come Fedora, modello dalla tesa più larga) decorava le vetrine delle boutique più chic, fu indossato da Al Capone, conferì un’aria misteriosa a Humphrey Bogart nel ’42 in Casablanca e divenne il titolo di un film diretto da Jacques Deray nel 1970 con Alain Delon e Jean Paul Belmondo nei ruoli di gangster. Senza dimenticare Robert Redford, che guardando il capolavoro felliniano Otto e mezzo, se ne innamorò e lo volle così fortemente da recarsi alla fabbrica nella città di Alessandria alla ricerca del Fedora di colore nero. Una sorta di case history che aveva varcato i confini del Belpaese per volare Oltreoceano.

Ma tra gli anni ’70 e ’80 qualcosa cominciava a cambiare: con l’avvento dell’automobile, l’utilità del cappello declinò, l’azienda dimezzò il numero di operai, così come la produzione, passando a 1.500 pezzi all’anno. Una serie di vicissitudini che costrinsero gli eredi, negli anni ’90, a vendere la Borsalino a un gruppo di imprenditori milanesi. Per arrivare poi al recente capitolo buio della bancarotta. La società è entrata in difficoltà finanziaria nel 2013, fino a che non è spuntata, nel 2015, Haeres Equita, la società d’investimento di private equity guidata dall’imprenditore italo-svizzero Philippe Camperio, che ha investito più di 10 milioni di euro, aggiudicandosi definitivamente l’asta lo scorso luglio e restituendo così speranza all’azienda e ai suoi dipendenti. “Dopo tre anni tempestosi, finalmente un po’ di serenità. Borsalino è un marchio con un valore inestimabile, una piccola azienda che ha il riconoscimento internazionale di un grande brand, e negli ultimi anni ha avuto una notevole crescita del volume d’affari”, dice Philippe Camperio. “Il mio interesse per Borsalino è stato istintivo, senza tener conto della due diligence. Solo in seguito ho constatato che l’azienda era vittima di anni di cattiva gestione per cui non riusciva a funzionare in maniera efficiente”.

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Ora l’imprenditore guarda con fiducia ed entusiasmo al futuro di Borsalino e gli obiettivi sono evidenti, “puntiamo sull’innovazione e sulla capitalizzazione dell’azienda. Il cappello è un oggetto che va al di là della cintura, delle scarpe, della borsa e del foulard: è stile, colore, materiale, forma”, dice. Un business plan chiaro che mira a preservare il dna del brand, reinterpretandolo in chiave moderna su tre assi di sviluppo. “Dobbiamo rafforzare la nostra presenza sui mercati internazionali, primo fra tutti quello americano. Ma per farlo sono necessari investimenti sul piano retail, wholesale ed e-commerce, un canale quest’ultimo difficile per i cappelli per un aspetto logistico. Guardiamo poi con grande interesse all’Asia, in particolare al Giappone, grazie alla joint-venture con un gruppo nipponico, per portare Borsalino a una cifra d’affari di 10 milioni di euro nel prossimo quinquennio”.

“Guardiamo con grande interesse all’Asia, in particolare al Giappone. Vogliamo raggiungere un giro d’affari di 10 milioni di euro in cinque anni”.

La Cina, al contrario, resta un mercato molto difficile, un Paese nel quale però entrare con una strategia commerciale ben precisa. “Bisogna abituare il consumatore cinese all’uso del cappello, proponendogli modelli più contemporanei”, continua Camperio. “Poi bisogna lavorare sul prodotto che deve diventare più sexy, femminile, pratico, glamour, rock and roll”. E lo racccconta già la campagna pubblicitaria autunno-inverno 2018 in circolazione che è stata affidata al fotografo italiano Joseph Cardo.

L’attenzione sarà poi spostata sul mercato femminile e sulla fidelizzazione dei millennial, “se la donna pesava il 20% sulla produzione quando siamo subentrati, oggi siamo al 30%, sulla buona strada per arrivare al 50%”. Sarà piuttosto complicato sedurre i millennial, “il loro atteggiamento nei confronti del lusso è differente rispetto alle altre generazioni, rispondono ai trend e alla comunicazione in maniera veloce, e noi dobbiamo adattarci, attuando una strategia di comunicazione ben precisa”, spiega Camperio. “Per noi è importante offrire loro un prodotto che possa piacere spontaneamente.

Alcuni cappelli della maison. (Shutterstock.com)

I loro valori dovranno essere gli stessi dell’azienda, tra questi la sostenibilità”. Non sarà imminente la differenziazione del prodotto, “solo a partire dal 2020-2022 cominceremo a riflettere sulla possibilità di inserire altre tipologie di accessori, come la piccola pelletteria, la valigeria e i guanti, tutto ciò che possa rispecchiare l’immagine Borsalino”.

Si procede invece nell’immediato alla ridefinizione del concetto di negozio fisico, che sarà dedicato a uno spazio di cultura e dimora di Borsalino, e all’insegna del racconto, uno storytelling per un invito al viaggio come scoperta del marchio. “Gli addetti alle vendite delle boutique a insegna Borsalino sono dei veri e propri ambasciatori del brand. Per noi è fondamentale lo sviluppo retail, perché il piano di fidelizzazione si realizza anche attraverso il punto vendita, che rappresenta un’interfaccia con il consumatore finale. Il cliente deve prima sposare la marca, poi acquistare il prodotto”, commenta Camperio. “Stiamo mettendo a punto il progetto di aprire due boutique in America, a New York e Miami. In Italia Borsalino è già presente a Milano e Firenze, ma non escludo nuovi opening di corner shop in Europa, come a Porto Cervo, Cortina e Capri, attraverso collaborazioni locali”.

Il legame di Philippe Camperio con Borsalino è dunque una cosa nuova, e la direzione che sta imprimendo al brand ha uno sguardo rivolto alle nuove generazioni con un forte potere d’acquisto e all’innovazione, senza però perdere di vista la grande tradizione che lo caratterizza. Con Borsalino, Philippe Camperio è il front man di una vicenda difficile, ma ricca di soddisfazioni. Che ha fatto risorgere dalle ceneri un fenomeno made in Italy esportato in tutto il mondo.

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