Michael Manley e John Elkann, fca
Investments

Fiat Chrysler, dalle “sexy stock” dei tempi di Marchionne al giovedì nero

Michael Manley e John Elkann
Michael Manley, ceo di Fiat Chrysler al Gran Premio di Monza di Formula Uno con John Elkann (Lars Baron/Getty Images)

La grande crisi ha investito il mondo dell’auto pochi mesi dopo il tramonto dei due grandi protagonisti che hanno segnato l’ultimo decennio: Sergio Marchionne e il suo caro nemico Carlos Ghosn, entrambi out per ragioni diverse, entrambi protagonisti delle più importanti operazioni di M&A dell’ultimo decennio. Tra poche settimane uscirà dalla partita anche Dieter Zetsche, dopo la lunga stagione al comando di Daimler-Mercedes. Prima di andarsene, al momento di approvare i conti del 2018, il ceo ha anticipato che il suo successore darà il via ad una profonda revisione dei costi basata sui tagli senza pietà, necessari per reperire le risorse da investire nell’auto elettrica ed in quella a guida autonoma.  A complicare la sfida, poi, si sono ormai accumulati gli elementi di una tempesta perfetta: le inchieste sul diesel, le nuove regole per le immatricolazioni, la prospettiva di diventare, dal prossimo 15 febbraio, il nuovo terreno delle guerre commerciali ingaggiate da Donald Trump.

Il risultato è stato una lunga serie di insuccessi e di paure, che hanno accompagnato la presentazione dei conti di inizio 2019. Mai, probabilmente il malumore è stato così ben distribuito: perdono molti colpi Daimler, Gm e Toyota. Fanno ancor peggio i grandi dell’auto asiatica: Geely, proprietaria di Volvo rinuncia alla Borsa mentre la controllata svedese lancio un profit warning sulle vendite in Usa, il suo mercato principale. Va peggio a Land Rover e Jaguar, nell’orbita dell’indiana Tata: nel trimestre sono andati in fumo 3 miliardi di dollari, mentre gli utili di Toyota sono scesi dell’81%.

Non c’è da stupirsi, in questa cornice, che pure Fca non navighi in buone acque. Ma la violenta reazione del mercato lascia comunque da pensare. Fca, complice il “sacrificio” di Marelli, ha adottato specie dopo la scomparsa di Marchionne, una strategia molto prudente. E i numeri, tutto sommato l’hanno premiata:

  • Lo scorso anno Fiat Chrysler ha realizzato un utile netto adjusted di 5 miliardi di euro, in progresso del 38% rispetto al 2017 e oltre le stime del consenso (4,594 miliardi). Meglio del previsto, grazie all’area Nafta, anche l’ebit adjusted, pari a 7,3 miliardi.
  • Anche l’ultimo trimestre si è rivelato positivo. Il trimestre si è chiuso con un Ebit adjusted a 2,023 miliardi, ricavi netti a 30,619 miliardi e liquidità netta industriale a 1,872 miliardi, tutto sommato in linea con le stime degli analisti e con le previsioni indicate dal gruppo a fine del terzo trimestre.
  • A questi dati va aggiunto il gradito ritorno del dividendo. Anzi, della doppia cedola perché c’è pure il “premio” straordinario legato alla vendita di Magneti Marelli.

Questi dati non sono serviti a tamponare le perdite in Borsa (il titolo ha perso oggi il 12,2%). Perché?

  • Il mercato ha punito la prospettiva del calo degli utili, il 10% in meno delle stime del consenso.
  • Il free cash flow industriale netto sarà solo di 1,5 miliardi contro i 4,4 miliardi del 2018 a causa di “maggiori investimenti ed esborsi per penali e altri costi in relazione alla definizione delle pendenze in materia di emissioni sul diesel negli Usa”.

In generale emerge un’azienda prudente, capace di giocare le non molte carte (in pratica la Jeep) di cui dispone per garantirsi un futuro dignitoso, da preda più che da cacciatore. Ma in un momento in cui i potenziali compratori scarseggiano (si è tirata indietro Geely) e comunque non sono disposti a pagare multipli elevati per sbarcare in Europa, le Borse si sfilano da un titolo sexy ai tempi di Marchionne, un po’ noioso di questi tempi. Ci vorrebbe qualcosa in grado di risvegliare l’appeal dei marchi. Ma un super Sergio non si improvvisa.

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