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Via della Seta, quanto investe davvero la Cina in Italia?

La raffineria di Yanlian nella provincia dello Shaanxi, in Cina (Getty Images)

Continua a procurare qualche allarme tra i partner europei e anche negli Stati Uniti l’apertura del governo italiano nei confronti della Cina. Il premier Giuseppe Conte ha fatto sapere che ad aprile sarà a Pechino per firmare il memorandum d’intesa per l’iniziativa Belt and Road, la nuova Via della Seta, che coinvolge 80 Paesi tra Asia, Europa e Africa e che mobiliterà investimenti per 900 miliardi di euro. Nel caso dell’Italia si tratterebbe della prima potenza del G7 a ratificare l’intesa.

Secondo alcuni osservatori, esiste il rischio che una maggiore vicinanza tra Roma e Pechino possa tradursi, oltre che in nuove opportunità commerciali per il nostro Paese, anche in nuove operazioni di trasferimento di asset italiani in mano cinese. Ma le cose stanno proprio così?  Quanto ha investito finora e quanto sta investendo davvero la Cina in Italia?

Un nuovo report di Rhodium Group e Mercator Institute for China Studies (MERICS) con dati al 2018 permette di rispondere con il supporto dei numeri.

Gli investimenti esteri diretti della Cina verso l’Unione europea nel 2018 sono stati pari a 17,3 miliardi di euro. Una cifra importante, certo. Si tratta però di un calo del 40% rispetto ai livelli del 2017 (29,1 miliardi). E anche del livello più basso dal 2014 e circa la metà rispetto al picco di 37 miliardi raggiunto nel 2016. Un’involuzione non riservata solo all’Ue, ma che si estende su scala globale per effetto della più stretta politica di controllo dei capitali varata da Pechino.

La parte del Leone negli investimenti cinesi in Europa durante il 2018 l’hanno fatta la Gran Bretagna (4,2 miliardi), Germania (2,1 miliardi) e Francia (1,6 miliardi), che insieme hanno catalizzato il 45% del totale degli investimenti cinesi nel continente. Non sono da sottovalutare però i casi di Svezia e Lussemburgo. La prima ha ricevuto dalla Cina 3,4 miliardi di euro, il granducato 1,6 miliardi.

L’Italia è molto più indietro, come tutto il gruppo dei Paesi dell’Europa del Sud, che oltre all’Italia comprende Spagna, Grecia, Portogallo, Slovenia, Croazia, Malta e Cipro. Tutte insieme queste nazioni hanno attirato solo 2,2 miliardi. Con un trend calante rispetto agli anni del boom avvenuto tra il 2014 e il 2015. Negli ultimi due anni sono infatti arrivati in Italia “solo” 2,5 miliardi.

In Italia le operazioni principali del 2018 sono state l’acquisizione di NMS Group da parte di SARI e quella del gruppo biomedicale Esaote da parte di una cordata di investitori cinesi.

mappa investimenti cinesi in Europa
Gli investimenti diretti cinesi in Europa (fonte: Rhodium Group)

Tuttavia, allargando lo sguardo su un orizzonte più ampio, quello che va dal 2000 a oggi, si scopre che l’Italia è stata la terza destinazione preferita degli investimenti cinesi in Europa, con un valore superiore a quello dei cugini francesi. Nel nostro Paese in 18 anni sono arrivati 15,3 miliardi di euro, contro i 14,3 miliardi d’Oltralpe. Nello stesso periodo la Germania ha attratto 22,2 miliardi e la Gran Bretagna 46,9 miliardi. Tra le operazioni principali conclusesi tra il 2014 e il 2016 sul territorio italiano sono da ricordare: l’acquisto da parte di China National Chemical, di una quota di controllo in Pirelli per 7,3 miliardi di euro, l’investimento da 400 milioni di euro di Shanghai Electric in Ansaldo Energia e l’acquisizione del 35% di Cdp Reti da parte del colosso dell’energia elettrica China State Grid, per un valore di 2,81 miliardi.

Il report si sofferma anche sugli aspetti prospettici della presenza all’estero di Pechino. All’inizio del 2019 il valore delle trattative avviate sarebbe già pari a 15 miliardi. E – spiegano gli analisti – le continue tensioni tra Cina e Usa potrebbero ulteriormente spingere gli interessi cinesi in Europa nel breve termine. E questo nonostante nel febbraio scorso il Parlamento europeo abbia approvato un documento che incoraggia particolari attenzioni da parte degli Stati membri nella valutazione degli investimenti cinesi in settori sensibili, come infrastrutture e tecnologia. Una mossa che l’Italia aveva già intrapreso nell’ottobre del 2017 estendendo i “golden power” finanche a prevedere il potere di veto agli investimenti in settori strategici come semiconduttori, storage di dati, robotica, tecnologia nucleare e spaziale e intelligenza artificiale.

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