di Piera Anna Franini
Il Teatro alla Scala è la Ferrari della cultura. Per questo Giuseppe Sala, sindaco di Milano e presidente del Cda Scala, vuole che il marchio venga capitalizzato. Lo ha detto a chiare lettere alla fine del Cda di oggi: uno dei più infuocati della storia del teatro di Milano e che all’unanimità ha deciso di rifiutare 22 milioni di donazioni dall’Arabia Saudita: 15 milioni per il teatro e 7 per l’annessa Accademia dei giovani. Restituito l’assegno di 3milioni e 100 mila euro messo sul piatto dal ministro della Cultura saudita come prima tranche a garanzia del progetto. Un no equivale al prezzo pagato dal sovrintendente della Scala, l’austriaco Alexander Pereira, per aver condotto le operazioni con troppa disinvoltura ed eccesso di indipendenza, lo accusano alcuni consiglieri. Sala non usa perifrasi, “Gli imputo grande ingenuità. S’è mosso in buona fede per cercare partner. Ne parlò sia con me sia con alcuni consiglieri dell’avvio del dialogo con gli Arabi, tuttavia poi non ha rispettato la procedura. La cosa, partita su basi sane, gli è scappata di mano, ha preso un’accelerazione senza che vi fosse il nostro consenso”.
La faccenda è nota. Da un mese, alla Scala si litiga su se e come accettare l’investimento arabo procacciato dal sovrintendente. I no-Pereira hanno sventolato la bandiera dei diritti civili violati dal Regno ricordando il caso del giornalista Kashoggi, ma ancor prima hanno svelato ai media dettagli che discussi in sede opportuna avrebbero avuto altri risvolti. In breve: da un mese si opta per disarcionare da cavallo il numero uno della Scala e con lui il progetto arabo. A sua volta, Pereira ha agito mosso dalla fretta di dimostrare l’abilità di portar soldi in cassa anche per assicurarsi un doppio mandato considerando che il suo contratto scade nel febbraio 2020.
Una punizione esemplare per il manager, ma anche un bel gruzzolo di soldi che se ne va. Perché è vero che la Scala – osserva Sala – si dichiara disponibile a riprendere da capo le trattative con il Regno saudita, da condursi però con negoziazioni condivise con i Consiglieri. Ma è da vedere se il Regno saudita, dove l’età media è di 26 anni (quella del Cda scaligero intorno ai 70) e corre al galoppo nel nome di una rivoluzione culturale, sarà ancora disposto a rimettersi in gioco con noi oppure dirotti energie e petrodollari verso Paesi più reattivi.
Al netto di tutto, anzitutto dei complotti, il ponte Scala-Arabia saudita è sì un’occasione mancata ma anche un invito a riflettere. Anzitutto sulla percezione – che all’estero hanno, e da noi assai meno – di un’Italia boutique della cultura. Per questo, i 22 milioni complessivi risultano tutto sommato pochi: briciole per un un ministero della Cultura (quello Saudita) che ne ha spesi 400 per il Salvator Mundi di Leonardo da Vinci, pochi se confrontati con i 525 milioni di dollari per poter utilizzare (per 30 anni) il brand Louvre da parte di Abu Dhabi, il vicino di casa assunto a modello. Una cifra irrisoria, se si considera che nel pacchetto saudita stava anche la richiesta di sedere nel Cda del teatro. Di qui, l’appello del sindaco a trattare coi guanti un marchio come quello della Scala.
In virtù del progetto Vision 2030, il Regno saudita ha messo a disposizione un budget di 64 miliardi di dollari per la cultura e intrattenimento. E l’Europa già s’è messa in moto così come è attiva sul fronte Emirati, Oman, Qatar, Kazakistan, nei Paesi insomma dove la cultura prospera grazie ai petrodollari. L’Italia può giocare una partita importante, sfruttando la competizione in tema culturale che s’è innescata nei Paesi del Golfo. L’Oman nel 2011 lanciò la prima Opera House araba, quindi fu la volta del Qatar, Emirati. Ora in Arabia Saudita si progettano teatri e sale da concerto. L’Italia, dalla Scala in giù, disporrebbe di un export culturale da curare e alimentare con strategie chiare. I capitani d’azienda, culturale e no, non vanno però lasciati soli e accusati poi di eccesso di indipendenza.
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