ragazzi lavorano al pc in vetrina
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Le 12 industrie che i Millennial stanno lentamente distruggendo

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(GettyImages)

I mass media spesso descrivono i millennial con tratti caricaturali, dimenticando i fattori complessi che condizionano le loro scelte di consumo. Parliamo delle persone che secondo Pew Research Center dovrebbero essere nate tra il 1981 e il 1996 (anche se molti arrotondano 1980-2000), ovvero la prima generazione a essere completamente digitalizzata e aver raggiunto l’età adulta nel nuovo millennio. In America rappresentano circa 71 milioni di individui, in Italia circa 11 milioni.

Parliamo di individui solitamente pratici di tecnologia, dotati di pensiero critico,  con motivazioni profonde e aspettative alte. I millennial, più di qualsiasi altra generazione precedente, attribuiscono valore al denaro speso eticamente. Ma sono anche afflitti dai debiti, salari che non bastano più per vivere decentemente, asset striminziti e un ascensore sociale quasi completamente bloccato rispetto ai loro antenati. Non deve sorprenderci se a una mutata disponibilità finanziaria corrisponde anche una diversa predisposizione alla spesa. Con la conseguenza di trasformare – e in diversi casi affossare – interi comparti produttivi. Tutto questo ha fatto saltare i nervi, non da ieri, agli esperti di marketing.

Alcuni sociologi della domenica ricorrono a cliché ormai consunti, e piuttosto denigratori: “narcisisti”, “immaturi”, “dipendenti dai cellulari”, “disimpegnati”. Ma quello che non viene perdonato ai millennial è di aver nuociuto, privilegiando la convenienza, la personalizzazione e la sostenibilità, a industrie e marchi consolidati che sembravano destinati a non passare mai di moda.

L’entrata dei millennial nell’età adulta – che in teoria dovrebbe coincidere con quella di maggiore capacità di spesa – ha coinciso effettivamente con il declino di settori quali la ristorazione informale, i beni di lusso, i cereali in scatola e tanti altri. Altri titoli a effetto rimandano a tesi piuttosto discutibili, per esempio quella che vorrebbe il calo delle proprietà immobiliari come frutto del nomadismo esistenziale e dell’insofferenza per gli affetti, piuttosto che il risultato – anche se non soprattutto – di politiche e mutazioni economiche che impediscono il radicamento.  L’analista di Morgan Stanley Kimberly Greenberger ha dichiarato a Business Insider: “Credo che abbiamo una significativa cicatrice psicologica per via di questa grande recessione”.

È vero che alcuni settori sono “invecchiati” come improvvisamente, a contatto con i millennial: ad esempio quello delle saponette da bagno negli Stati Uniti, che sarebbe  in crisi, secondo alcune ricerche, perché i consumatori under-25 sono sempre più convinti che queste siano ricoperte dai germi. Stessa storia anche per i tovaglioli di carta, però a causa del fatto che i millennial mangiano sempre più spesso fuori, o preferiscono i più pratici “rotoloni” di carta. In difficoltà anche i venditori di motociclette, i club di golf, o i ristoranti basati sull’iconografia esplicitamente gradassa e sessista (stile Hooters, per intenderci).

Un report di Cb Insight ha allora analizzato 12 settori in cui “l’effetto” dei millennial sarebbe stato distruttivo, per capire quanto c’è di vero e quanto è frutto di pregiudizi. Ne escono alcune storie interessanti. Le vendite dei cereali, ad esempio, sono calate del 17 per cento nell’ultimo decennio. Colpa della pigrizia? Il New York Times ha riportato nel 2016 che quasi il 40 per cento dei millennial intervistati da Mintel ha detto che i cereali sono una scelta poco pratica per la colazione, perché bisogna pulire dopo averli mangiati. Ma è solo una parte della storia: l’altra spiegazione è che oggi ci sono semplicemente più opzioni per la colazione, e secondo altre ricerche i millennial cercano alimenti a basso contenuto di zuccheri. Il problema non sono i cereali in sé – in tutte le rilevazioni continuano a essere molto amati – ma il come renderli più attraenti.

I millennial amano mangiare fuori casa più di qualsiasi altra generazione, ma non vogliono più farlo in tavoli circondati da cubiculi, tratto distintivo del casual dining: parliamo di quelle catene a marchio Olive Garden, Applebee’s o Ihop, proliferate per tutti gli anni Ottanta e Novanta per merito soprattutto delle famiglie suburbane. Il concetto di questo tipo ristorazione si basa per l’appunto sul pranzo informale, con piatti tradizionali americani a base di insalate piuttosto blande, pasta spesso scotta, gamberetti, pollo generico e una “specialità” che varia da catena a catena – quasi sempre piuttosto scialba.

Ma con i millennial le regole sono cambiate, e non perché l’esperienza del dining out non venga apprezzata, anzi: la spesa dei consumatori per i ristoranti e altre catene di alimentari è passata dai 584 miliardi di dollari del 2015 ai 605 miliardi del 2017. Il punto è che l’erosione del reddito medio rispetto agli affitti, che costringe in tanti a portarsi il miserrimo Tupperware al lavoro, evidentemente stimola il desiderio di mangiare qualcosa che riflette meglio il proprio stile di vita e i propri valori valori. I millennial preferiscono ristoranti di qualità – laddove possono permetterseli – o piuttosto pranzi veloci e salutari. Considerando solo i marchi principali, il numero di ristoranti casual dining è diminuito infatti dell’1,5 per cento in due anni, con il solo Ruby Tuesday che ha visto le sue vendite contrarsi di oltre il 15 per cento.

Per contro, sono in crescita catene casual più simili al fast food come Panera Bread e Chipotle, i quali mostrano una maggiore enfasi su ingredienti organici o coltivati localmente. Si va verso una polarizzazione del gusto, dunque: mangiare come si deve o mangiare in fretta. I ristoranti casual si stanno adattando: cambiando il design degli interni, offrendo porzioni più piccole, aggiungendo ricette vegetariane, ma la sfida è ancora lungi dall’essere vinta.

I millennial americani, secondo un report di Deloitte, sono il 6,4 per cento meno propensi a spendere nei grandi magazzini rispetto alle altre generazioni. Una spiegazione semplicistica è che i giovani sono troppo abituati ormai all’acquisto online. Di sicuro, il diminuito potere d’acquisto rende il commercio su Internet più appetibile per due motivi: una selezione più ampia e la consegna a domicilio. Eppure, il 50 per cento dei millennial americani continua ad amare l’acquisto in location fisiche. Quello che sta succedendo è che vanno forte i marchi capaci di unire prezzi convenienti e atmosfere urbane e informali: ad esempio H&M o Zara, nonostante le loro pratiche sindacali non siano sempre trasparenti o encomiabili. Se le vendite dei più grandi magazzini sono in calo, le catene famose per la loro price sensitivity come TJ Maxx e Walmart sono in crescita.

Uno dei miti più diffusi sui millennial è che non amino i beni di lusso. Che prediligano le esperienze, al posto degli oggetti preziosi. È vero che, secondo una ricerca Deloitte dell’anno scorso, un millennial americano su quattro non ha effettuato acquisti di lusso. Ma la verità è più complessa: i millennial amano sia le esperienze che le cose materiali. È che, riguardo a quest’ultime, preferiscono spendere di meno, e affittare di più. Con la manifattura di massa i marchi del lusso non hanno più il “peso” simbolico che avevano un tempo, e gli oggetti capaci di dare valore al proprio status sociale sono di più e diversi. Ora nel mondo del luxury sono diversi gli oggetti che possono essere noleggiati, proprio come le automobili, le barche o le case. E così  si stanno moltiplicando come funghi le start-up che consentono, grazie ad abbonamenti mensili, di cambiare orologi di lusso come se fossero delle automobili in leasing.

Secondo lo studio di Cb Insight, i millennial americani spendono in media 40 dollari al mese per il fitness, rispetto ai 25 dollari della Generazione X e i 15 dollari dai baby boomers. Ma lo fanno privilegiando le lezioni di gruppo piuttosto che l’esercizio in solitaria. I centri di fitness sono aumentati a un ritmo dieci volte superiore, tra il 2012 e il 2015, rispetto alle palestre tradizionali.  Il modello basato sulle lezioni ruota attorno alle nozioni di “comunità” e “socializzazione”, che riflettono il bisogno di contatto sociale dei millennial. Che è notevole: secondo un altro studio, il 45 per cento dei millennial americani soffre di solitudine, secondi solo ai loro successori della cosiddetta “Gen Z” (nati dopo il 1995 o dopo il 2000, a seconda dei parametri). Molte catene di palestre tradizionali stanno prendendo nota del cambiamento, e anziché costringere gli utenti ad abbonamenti annuali, hanno introdotto il pagamento tramite app per cellulare.

La birra non se la passa bene, nel complesso, avendo perso il 10 per cento della sua quota di mercato in favore del vino o di altri liquori negli Stati Uniti dal 2006 al 2016. Un sondaggio Harris rivela che il 40 per cento dei millennial preferiscono consumare vino o altri tipi di alcolici che non siano la birra durante il Superbowl: una minoranza importante che fino a poco tempo fa sarebbe sembrata un’eresia. Marchi di birra “mainstream” come Coors, Budweiser o Heineken sono in crisi popolarità, ma parallelamente la corsa dei marchi artigianali continua – il mercato craft beer è cresciuto di un incredibile 500 per cento in 10 anni e la quota di mercato è quadruplicata – così i primi stanno facendo a gara per accaparrasi i secondi. Il problema è che, come riporta uno studio Nielsen, i giovani stanno bevendo meno alcolici in generale e quando lo fanno, preferiscono scegliere la qualità piuttosto che la quantità. Le ingozzate di lattine di birra in stile Homer Simpson sono ormai sempre più datate.

Tutti questi esempi illustrano come la chiave per affrontare con successo i cambiamenti nei gusti dei consumatori non è quella di cambiare i millennial, o di giudicarli con parametri moralistici ma cambiare con essi. Alcune società ci sono riuscite con intelligenza e grazia, altre hanno fallito. Ma attribuire la responsabilità di quei fallimenti ai più giovani è superficiale e sbagliato. Alla radice del declino ci sono quasi sempre errori da manuale sull’incapacità di adattarsi a condizioni mutate.

Piuttosto che dai millennial, le minacce arrivano da brand più giovani e flessibili che hanno investito tutto sulla comprensione delle abitudini e preferenze di una demografia particolare, e piuttosto che aggrapparsi a modelli vetusti di consumer behaviour hanno studiato bene le caratteristiche di un mercato potenzialmente enorme, specialmente nella nuova classe agiata di indiani e cinesi. Le rivoluzioni di mercato ci sono sempre state anche prima dei millennial, e continueranno con quelli che verranno dopo.

 

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